Nuovi profili nella gestione dell’ente locale

§ 1  La legge sulle autonomie locali (innovazioni legislative negli enti locali, significato della potestà statutaria, le città metropolitane ed i microcomuni) § 2 Nuovo ruolo del cittadino (il cittadino, la trasparenza) § 3 La centralità del capo dell’ amministrazione (la funzione di indirizzo e la funzione di gestione, il capo dell’ amministrazione, la giunta, il consoglio, l’evoluzione dei controlli, la valutazione e il controllo strategico) § 4 La funzione degli organi burocratici (la funzione degli organi burocratici, il segretario, il direttore generale, i dirigenti, il controllo di gestione, la valutazione del personale) § 5 Il processo di aziendalizzazione (il rafforzamento degli organi, l’autonomia finanziaria, la programmazione, la gestione dei servizi,  il processo di semplificazione)

§  1 La legge sulle autonomie locali

1. Innovazioni legislative negli enti locali

Dopo l’epocale rivisitazione normativa delle autonomie locali del 1990, la legge Bassanini aveva disposto che lo stato deve trattenere a sé soltanto quelle funzioni che, per la loro natura, non possono essere attribuite algi enti locali ed alle regioni perché incompatibili con le loro ridotte dimensioni. La recente rivisitazione in senso federalista   della Costituzione approvata con la legge costtuzionale 18 ottobre 2001 n. 3 interessa in particolare anche gli enti locali in quanto evidenzia la centralità del comune nel contesto dello stato comunità, ci induce ad analizzare quali innovazioni di spessore sono state apportate all’ordinamento degli enti locali in dieci anni di riforma della loro legislazione. I comuni sono stati sempre l’istituzione più vicina al cittadino e rappresentano il primo livello di rapparto con lo Stato. Ora la novazione appportata all’art 117 della Costituzione gratifica il ruolo degli enti locali nello Stato in quanto, rivedendo il criterio di ripartizione della Repubblica in comuni, province, città metropolitane, regioni e stato, ne deriva un riconoscimento agli enti locali di  maggior dignità costituzionale rispetto allo Stato centrale e dando così ulteriore conferma alla validità del principio dell’autonomia degli enti locali,  codificato nell’art. 5 della carta costituzionale:   si deve evidenziare che l’art. 5 non prevede l’istituzione, ma il riconoscimento delle autonomie locali che, come soggetti politici, non traggono la loro legittimazione dallo Stato perché storicamente preesitono ad esso. Inotre viene individuato all’art. 7 con valenza costituziuonale un consiglio delle autonomie locali quale organo di consultazione fra regioni ed enti locali, mentre analogo organo fra lo stato e le autonomie locali è stato disciplinato solo da una legge. Si deve comunque tenere presente che la Costituzione pone solo i principi del federalismo e che ora si dovrà affrontare il non semplice percorso legislativo, a livello statale e regionale, con cui si renderà una entità concreta lo stato federale. Questa riforma è basata sul principio di sussidiarietà delle organizzazioni locali rispetto lo Stato, ma per essere completa dovrà essere integrata da un’ulteriore modifica costituzionale che permetta a livello parlamentare un maggior coinvolgimento delle autonomie locali nei processi decisionali legislativi. Il comune in particolare ora si configura  veramente come ente esponenziale  della collettività, di cui è preposto a curare gli interessi generali.

L’ente locale dopo l’emanazione della costituzione repupplicana si è trovato investito dal legislatore progressivamente di maggiori competenze sia nel settore della pianificazione urbana, che permette di disciplinare lo sviluppo della vita della città,  che nelle attività di erogazione di servizi alla comunità. Per dare spazio allo svolgimento di queste competenze ci si rendeva giornalmente conto che il testo unico del 1934, con le sue appendici risalenti al 1911 ed al 1915, come novate dai provvedimenti legislativi che fra il 1945 e il 1947 hanno adeguato la normativa alla cambiata forma di governo, rappresentava una matrice non al passo con il contesto socioeconomico. Infatti, era ormai consolidata l’individuazione del comune e della provincia secondo l’accezione di ente autonomo che cura i fini generali di una determinata collettività stanziata sul proprio territorio e non più quella, derivata da una visione centralistica dello stato, di mero erogatore di servizi attribuitigli dala legge. Dopo pluriennali proposte parlamentari, finalmente nel 1990 è stata approvata la nuova legge sulle autonomie locali (la legge 8 giugno n. 142): a dieci anni dall’ entrata in vigore di questo nuovo ordinamento si rende opportuno fare una riflessione su cosa è cambiato nel funzionamento di questi enti, che sul territorio nazionale sono la prima organizzazione pubblica a diretto contatto con i cittadini. Si deve evidenziare in primo luogo che la rivisitazione di questa normativa è intervenuta con quasi venti anni di ritardo rispetto al’ordinamento regionale e con più di quaranta anni di ritardo rispetto alle previsioni della Costituzione: questo è un ritardo colpevole poiché ha dimostrato la poca sensibilità del legislatore alle esigenze degli enti locali che, dopo l’entrata in funzione delle regioni, si trovavano a confronto con un centralismo regionale che si stava progressivamente sostituendo a quello statale. Sulla falsariga di queste considerazioni sorge il dubbio che, se il Parlamento non avesse dovuto ratificare con la legge 30 dicembre 1989 n. 439 la convenzione europea relativa alla Carta  dell’Autonomia Locale, firmata a Strasburgo nel 1985,  i contenuti della legge n. 142 sarebbero stati frutto delle modifiche istituzionali apportate alla nostra organizzazione statale dalle leggi Bassanini del 1997 e che nel frattempo si sarebbe provveduto a degli aggiustamenti normativi non di spessore, ma necessari per l’adeguamento della normativa preesistente all’evoluzione dell’ordinamento giuridico. Al di là di queste critiche, che sono rivolte alla passata legislazione, si deve prendere atto che la legge n. 142, oltre ad innovare profondamente l’ordinamento delle autonomie locali, ha il pregio di essere stata uno dei primi provvedimenti normativi che ha disciplinato compiutamente nel nostro ordinamento giuridico la delegificazione e la semplificazione amministrativa; inoltre sempre a questa legge compete la primogenitura della positivazione del principio che separa la funzione di indirizzo politico da quella della gestione amministrativa. La legge n. 142 è una legge di delega  aperta in quanto indica i principi a cui si devono attenere il governo ed i comuni nel predisporre i provvedimenti attuativi di questa legge che necessariamente non poteva essere una legge di dettaglio.

La materializzazione dei principi contenuti nel nuovo ordinamento degli enti locali ha comportato l’impiego di un lasso temporale superiore rispetto le aspettative del legislatore, in quanto  la legge n. 142, essendo sia una legge essenzialmente di principi che frutto di un voto di fiducia, necessitava dell’ emanazione di successivi atti normativi di adeguamento e attuazione, per permettere ai singoli enti di esercitare un’autonoma gestione delle proprie risorse organiche e finanziarie. Sideve evidenziare che questa legge attribuisce allo statuto delgi enti locali e ad alcuni loro regolamenti una potestà abrogativa della legislazione precedente che non trova precedenti nel nostro ordinamento giuridico. Molti dei principi che erano astrattamente contenuti nella legge n. 142 sono stati approfonditi  dalla legge 23 ottobre 1992 n. 421, che prevedeva la razionalizzazione delle amministrazioni pubbliche, il riordino del sistema sanitario, del pubblico impiego e dell’ordinamento contabile e tributario degli enti locali, nonché della legge 25 marzo 1993 n.81, sull’elezione diretta del sindaco e del presidente della provincia. In questo quadro normativo un ruolo a sé stante va riservato al decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29 (emanato in base alla delega contenuta nella legge n. 421) il quale prevede norme sulla razionalizzazione delle pubbliche amministrazioni e sulla revisione del pubblico impiego; in particolare questo decreto ha il pregio di allargare a tutte le pubbliche amministrazioni il principio della separazione del potere di indirizzo politico dai compiti gestionali e di rivolgere l’attenzione della pubblica amministrazione ai risultati della sua attività, i quali devono essere raggiunti rispettando la legittimità e garantendo 1’economicità, l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa. Un ulteriore passo verso il completamento del nuovo ordinamento è stato  fatto con 1’emanazione del d.lgs 25 febbraio 1995 n. 77 (anche esso previsto nelle deleghe della legge n. 421), che ridisciplina 1’ordinamento finanziario e contabile degli enti locali. Gli ultimi provvedimenti legislativi che implementano e riordinano i contenuti di quel paniere normativo con cui si è voluto forgiare un ente locale moderno ed efficiente, si rinvengono prima nelle leggi 15 marzo 1997 n. 59 e 15 maggio 1997 n.127, con cui rispettivamente si avvia la riforma del nostro stato in chiave federalista e si rivisitano alcuni istituti dell’ordinamento delle autonomie locali, poi nella legge 3 agosto 1999 n. 265, che dopo un lungo iter parlamenrare apporta modifiche di spessore alla legge n. 142, e nel quasi coevo decreto legislativo 30 luglio 1999 n. 286, che detta norme sui controlli interni negli enti pubblici. Si deve rilevare che la legge n. 265 a differenza della legge n. 142 è una legge che, pur essendo innovativa che prevede successivi provvedimenti di attuazione, contiene una delega chiusa in quanto non detta nuovi principi e indica gli obiettivi che devono raggiungere comuni e provincie, configurandosi quindi come una legge di dettaglio.

La produzione legislativa di settore è stata abbondante, ed ha assunto in qualche momento una connotazione che eufemisticamente si può aggettivare come alluvionale, per cui sussisteva la materiale necessità di avere a disposizione un testo unico, che fungesse da crogiolo per amalgamare le molteplici norme esistenti. Il testo unico, tanto atteso, è stato approvato con il decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 267: esso, coordinando la legislazione esistente per renderla più intellegibile, rappresenta una nuova chiave di lettura di dieci anni di riforma delle autonomie locali, in quanto gli è stata attribuita dal legislatore la potestà di armonizzare la normativa preesistente; conseguentemente le innovazioni del testo unico diventano efficaci dal momento delle sue entrate in vigore e le precedenti norme, che sono state modificate, vengono coassialmente abrogate. Il d.lgs n. 267 è un complesso organico di norme che, abrogandone totalmente o parzialmente alcune emesse in dieci anni di continue riforme, tende a valorizzare in particolar modo l’autonomia locale. Si deve rilevare che la delega contenuta nella legge n. 265 per la predisposizione del testo unico prevedeva la raccolta ed il coordinamento della legislazione vigente, con lo scopo di facilitare l’applicazione delle norme preesistenti, limitando quindi le innovazioni ai soli casi di sistemazione formale, comodità di lettura e utilità applicativa del nuovo testo: il provvedimento che è stato prodotto, per quanto valido, in diversi punti invece ha di fatto modificato precedenti diposizioni, con il rischio di un successivo pronunciamento di incostituzionalità mancando al riguardo la preventiva prefissione da parte del parlamento dei principi e dei criteri di massima richiesti dall’art. 76 della Costituzione. Per comprendere la portata di questi provvedimenti legislativi, gli stessi devono essere inquadrati fra gli aggiustamenti legislativi necessari per preservare l’armonia normativa generale dell’ordinamento giuridico con l’evoluzione del contesto socio‑politico e per evitare che alcune norme, che risultano inadeguate dopo la loro emanazione, vadano in dissuetudine ed appesantiscano inutilmente il quadro normativo.

In questo non semplice contesto normativo ora si inserisce la riforma al Titolo V della Parte Seconda della Costituzione, approvata in via definitiva con referendum confermativo ai sensi dell’art. 138 della Costituzione. Con la legge costituzionale n. 3 viene riconosciuta in capo agli enti locali la potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite. Inoltre questa legge prevede che i regolamenti parlamentari disciplinino la aprtecipazione dei rappresentanti degli enti locali, accanto ai rappresentanti regionali, alla commisione parlamentare per le questioni regionali. I  principi della riforma costituzionale erano stati già anticipati dalla legge n. 59 e dal conseguente decreto legislativo 30 luglio 1999 n. 300 che disciplina il riordino dei ministeri e l’istituzione degli uffici territoriali del governo che, rivisitando le le funzioni delle prefetture, saranno gli unici interlocutori fra lo stato e le autonomie locali. Si fa presente che per rendere effetiva la riforma della Costituzione dovranno essere emanati ulteriori aggiornamenti all’ordinamento delle autonomie locali, anche se il lavoro finora effettuato dal legislatore è già in sintonia con i principi del federalismo.

Queste poche righe rendono evidente la necessità di una formazione continua di aggiornamento di tutti gli operatori  del settore, dato il progressivo evolversi della legislazione che implica una nuova cultura nella gestione non di una singola materia, ma dell’ intera attività degli enti locali:  con questi aggiornamenti professionali dovrà essere prestata particolare attenzione agli aspetti normativi che incidono sull’ organizzazione e sulla direzione del lavoro.

 

2. Significato della potestà statutaria

Una delle innovazioni di maggior spessore della legge n. 142 è stata l’attribuzione della potestà statutaria a provincie e comuni: con la potestà statutaria è stata finalmente resa una proposizione forte l’autonomia degli enti locali, che sono diventati effettivamente dei centri autonomi di responsabilità, mentre prima la loro autonomia era solo un principio astrattamente previsto dalla nostra Costituzione. Con l’autonomia statutaria e regolamentare (art. 3 comma quarto del d.lgs 267) il legislatore, delegificando la normativa di settore, ha voluto dare ad ogni ente la possibilità di forgiarsi un corpo normativo consono alle proprie caratteristiche, rispondendo così alle esigenze di avere delle regole più vicine ai cittadini. Lo statuto rappresenta lo strumento giuridico con cui si supera 1′ appiattimento giuridico fra gli enti locali che era tipico del precedente ordinamento: con lo statuto, infatti, ogni ente può codificare le proprie caratteristiche e definire meglio la propria posizione sul territorio. Nella gerarchia delle fonti normative allo statuto viene riconosciuta una particolare posizione, in quanto, pur essendo fra le fonti del diritto un atto con natura regolamentare, la legge gli ha attribuito una capacità abrogativa nei confronti delle precedenti norme di settore.

Il testo unico ha dedicato all’atto normativo principale di comuni e provincie l’art. 6, ma l’intero degreto è costellato da norme che prevedono quali sono i suoi contenuti per i singoli istituti giuridici. Lo statuto nell’ambito dei principi fissati dalle leggi, che costituiscono un limite inderogabile alla loro autonomia normativa, specifica le attribuzioni degli organi, le forme di garanzia e di partecipazione delle minoranze all’ attività politico‑amministrativa dell’ente locale, l’ordinamento degli uffici e dei servizi; inoltre lo statuto deve prevedere le forme di collaborazione fra enti locali, di partecipazione popolare, del decentramento, dell’accesso dei cittadini alle informazioni e ai procedimenti amministrativi, oltre a tutti gli altri argomenti specificatamente previsti dal testo unico. Data la validità dei principi a cui si informa la potestà statutarie attribuita agli enti locali, il legislatore, nel contesto della riforma federale della Costituzione, ha dato  valenza costituzionale allo statuto degli enti locali. La rivisitazione dello statuto, ora disposta dall’art. 3, comma  terzo, del nuovo testo unico sulle autonomie locali, implica anche una verifica di come è stata esercitata l’autonomia attribuita agli enti locali: in questo lavoro di rivisitazione, al di là dell’abrogazione implicita delle norme statutarie e regolamentari che non sono conformi ai nuovi principi legislativi che costotuiscono per esse un limite inderogabile, dovrà essere setacciata tutta la legislazione di settore sia per focalizzare la normativa che non è stata esplicitamente abrogata (cfr. art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale) che per individuare eventuali norme che sono state disapplicate o quali invece sono rimaste inapplicate. Una particolare attenzione dovrà essere posta alle norme statali e regionali che regolano ogni singolo istituto, le quali possono essere sparse fra più articoli o anche fra diverse fonti: ad esempio l’istituto della ratifica alle variazioni di bilancio è regolata dal combinato disposto degli articoli 42, ultimo comma, e 175, quarto comma, del nuovo testo unico; il programma degli investimenti è regolato dall’articolo 199 e seguenti del t.u., dall’art. 14 della legge 11 febbraio 1994 n. 109 e dai relativi provvedimenti di attuazione (art. 13 DPR 554/1999 e DM 21.06.2000). Si dovrà effettuare di conseguenza un coassiale lavoro di aggiornamento della normativa statutaria e regolamentare, con l’attenzione che lo statuto deve essere un contenitore di principi, mentre le norme di dettaglio trovano la loro allocazione nei regolamenti. Nell’ambito della normativa così focalizzata, si dovrà porre particolare attenzione alle opzioni che sono  specificayamente rimesse alla potestà statutaria e regolamentare dell’ente, agli argomenti che vengono demandati per la loro attuazione alla potestà normativa locale ed agli spazi che sono stati lasciati liberi dalla legge.

Essendo lo statuto l’atto regolamentare principale dell’ ente locale, il legislatore ha previsto per la sua approvazione un particolare percorso formativo: il testo statutario deve ottenere il consenso dei due terzi dei consiglieri assegnati; nell’eventualità che non venga raggiunta tale maggioranza con la prima votazione, la votazione sullo statuto dovrà essere ripetuta in successive sedute entro trenta giorni e lo statuto si intenderà approvato se otterrà per due volte il voto favorevole della maggioranza dei consiglieri assegnati. Dopo che lo statuto avrà esitato positivamente l’ esame di legittimità da parte del Comitato Regionale di Controllo (CO.RE.CO), lo stesso verrà pubblicato all’ albo dell’ente per trenta giorni nonché nella raccolta ufficiale degli statuti presso il Ministero dell’ Interno, affinché chiunque sia in grado di prenderne conoscenza.

Si evidenzia che con la potestà statutaria si concretizza nell’ ente locale il principio della sussidiarietà, che prevede l’attribuzione di competenze normative all’ente che è più vicino ai destinatari delle decisioni amministrative e dei relativi procedimenti.

 

 

3. Le città metropolitane ed i microcomuni

Il legislatore del 1990 nel riformare l’ordinamento degli enti locali ha tenuto in evidenza sia i grandi aggregati urbani, che costituiscono una interconnessione economico-socile fra più comuni, che le piccole realtà comunali.

Il testo unico del 1934 attribuiva particolari connotazioni solo al comune di Roma, ma con la legge n. 142 si è preso atto dell’ esistenza di altre realtà sorte a seguito dei fenomeni di inurbamento ed ha previsto che le regioni, su proposta degli enti locali interessati, delimitino le aree metropolitane nei territori dei comuni che hanno rapporti di stretta integrazione territoriale in relazione alle attività economiche, ai servizi essenziali alla vita sociale, nonché alle relazioni culturali e alle caratteristiche territoriali. Ai comuni facenti parte di un’area metropolitana  è data la facoltà di costituirsi in una città metropolitana, che viene considerata come territorio di una nuova provincia qualora l’ area della città metropolitana non coincida con quella di una provincia. La legge n. 142 ha individuato alcune aree metropolitane demandando alla potestà normativa regionale l’emanazione delle norme di attuazione: questa fattispecie rappresenta uno dei casi in cui il nuovo ordinamento delle autonomie locali ha trasposto alla legislazione regionale la competenza normativa su alcuni argomenti riguardanti le autonomie locali, competenze che precedentemente erano riservate al legislatore statale. Nel contesto della riforma federale della Costituzione il parlamento, rifacendosi alla legge 15 dicembre 1990 n. 396, che prevede particolari interventi nella città di Romadata la sua qualità di capitale della Repubblica, ha voluto dare un riconoscimento costituzionale all’individuazione della capitale del nostro stato, prevedendo per essa un particolare ordinamento normativo.

Uno degli obiettivi che si è posta la legge n. 142 è assicurare anche agli enti locali di ridotte dimensioni la possibilità di dar seguito al processo di riforma, nonostante le ridotte dimensioni del loro apparato  burocratico. Gli strumenti con cui viene incentivato nella gestione dei servizi l’obiettivo di rendere funzionali questi enti si individuano nella facoltà data ai comuni di associarsi tramite le convenziopni, le fusioni e le unioni. Nel contesto della normativa che regola le modificazioni territoriali degli enti locali (competenza già attribuita dallo stato alle regioni dalla legge n. 142) l’ art. 15 del d.lgs n. 267 contempla l’ipotesi di fusione fra due o più comuni contigui, indipendentemente dal raggiungimento del limite demografico di 10.000 abitanti, prescritto per la costituzione di nuovi comuni. La norma inoltre prevede che la legge regionale di istituzione di nuovi comuni nati per fusione assicuri alle comunità di origine adeguate forme di partecipazione e di decentramento dei servizi. Per incentivare le fusioni oltre ai contributi della regione a favore di questi nuovi enti, è previsto che lo stato eroghi ad essi nei dieci anni successivi alla fusione appositi contributi straordinari commisurati alla quota dei trasferimenti spettanti ai singoli comuni che si fondono.  Quale ulteriore incentivo per le fusioni è lasciata allo statuto del nuovo comune la facoltà di prevedere l’ istituzione di municipi nei territori delle comunità di origine, con la possibilità di  istituire appositi organi, eletti a suffragio universale diretto, per il loro funzionamento dei municipi, la cui funzione e organizzazione sarà disciplinata dallo statuto e dal regolamento del nuovo comune sorto dalla fusione. La legge nel disporre questa norma ha tenuto in evidenza il fatto che le comunità locali, per quanto di dimensioni demografiche ridotte, non sono solo un’entità giuridica ma rappresentano una determinata cultura radicatasi su di un preciso territorio e di conseguenza ha voluto garantire una forma di rappresentanza a queste comunità, che hanno rinunciato all’esistenza di una loro struttura comunale autonoma.

Considerando la necessità che molti comuni per lo svolgimento delle loro funzioni necessitano di associarsi con altri enti, il t.u. del 1934 aveva riproposto l’ istituto dei consorzi previsto nella legge comunale e provinciale del 1915. L’ istituto dei consorzi per la gestione diretta dei servizi regolati dall’abrogato testo unico aveva dato vita ad entità sovracomunali il cui compito era sia quello di gestire in economia servizi semplici quali una scuola media, servizio che per la sua gestione non necessitava di una particolare organizzazione politico-burocratica, che quello di gestire il servizio di raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti urbani, servizio che invece per le sue caratteristiche avrebbe dovuto essere gestito anche con criteri aziendalistici istituendo una azienda municipalizzata. Il legislatore del 1990 per facilitare la costituzione di forme associative con semplici compiti gestionali ha previsto l’istituto della stipula di una convenzione che regoli i rapporti fra gli enti per la gestione del servizio, senza la necessità di dar vita a nuove strutture buroscratiche; il nuovo testo unico ha aggiornato questo istituto stabilendo che nella convenzione può essere prevista la delega di funzioni a favore di uno degli enti partecipanti alla convenzione o la costituzione di un apposito ufficio unico. Le convenzioni costituiscno uno strumento inteso a consentire l’esercizio congiunto ed in modo unitario fra più enti locali di attività che, se svolte singolarmente da ciascuno di essi,  concreterebbero un inutile e dannoso spreco di energie e di mezzi. Esse possono includersi fra gli accordi organizzativi che costituiscono una disciplina concordata di un’attività pubblica, che altrimenti dovrebbe svolgersi mediante attività distinte di ciascun pubblico potere partecipante alla convenzione. Queste convenzioni non concretano un negozio di diritto privato in quanto le funzioni che ne costituiscono l’oggetto non hanno contenuto patrimoniale, ma sono assoggettate alla disciplina privatistica, in quanto compatibile, essendo assimilabili agli accordi di programma.

La legge n. 142 ha stabilito che i consorzi tra comuni devono essere attivati solo per la gestione associata di uno o più servizi con le norme previste per le aziende municipali e che quelli esistenti vanno conseguentemente rivisitati. Per la costituzione dei consorzi i consigli degli enti partecipanti devono approvare, con la maggioranza assoluta dei propri componenti, una convenzione e lo statuto del consorzio. Il d.lgs 267 all’ art. 31 prevede la trasmissione obbligatoria, agli enti aderenti, degli atti fondamentali del consorzio al fine di garantire la pubblicità degli stessi; viene confermata anche la prescrizione che fra gli stessi enti locali non può essere costituito più di un consorzio, in quanto la precedente legislazione aveva dato luogo ad una proliferazione di consorzi che disperdevano funzioni e risorse. La nomina dei rappresentanti da parte dei consigli degli enti consorziati in seno all’ assemblea consortile con la  normativa preesistente dava vita ad un organo che aveva forti connotazioni politiche: la 142 ha previsto che queste assemblee siano costituite solo dai rappresentanti legali degli enti associati o dei loro delegati, con peso di voto proporzionale alle dimensioni del proprio ente: con questa rivisitazione i componenti dell’ assemblea consortile rappresentano il loro ente e non le componenti politiche che li hanno designati. Il successivo decreto legge 28 agosto 1995 n. 361, convertito con modifiche nella legge 27 ottobre 1995 n. 437, ha precisato che ai consorzi che gestiscono attività aventi rilevanza economica e imprenditoriale si applicano le norme delle aziende speciali.

Accanto a queste formule, che rappresentano un nuovo modo di interagire fra gli enti locali, anche se in parte mutuate dalla precedente legislazione, la legge n. 142 all’ art. 26 aveva previsto l’ istituto dell’ unione di comuni per la gestione associata di uno o più servizi di carattere non economico. Il legislatore inizialmente aveva finalizzato le unioni alla fusione fra i comuni partecipanti all’unione, ma proprio conseguentemente a questa imposizione le unioni inizialmente non sono state recepite secondo le aspettative del legislatore: l’ istituto delle unioni è stato riformato con la legge n. 265 rimuovendo il termine di dieci anni entro cui le unioni dovevano trasformarsi in fusioni di comuni, pena lo scioglimento dell’ unione. Il d.lgs n. 267 ha recepito all’art. 32 la preesistente normativa sulle unioni, confermando lo stralcio della prescrizione che limitava la costituzione dell’ unione ai soli comuni appartenenti ad una medesima provincia. Per la costituzione dell’ unione è prevista l’ approvazione da parte dei consigli degli enti partecipanti, con la maggioranza dei rispettivi componenti, dell’atto costitutivo e dello statuto dell’ unione, nei quali vengono regolate le modalità di gestione delle funzioni. Si deve rilevare che dopo la rettifica apportata dalla legge n. 265  all’istituto dell’unione, si è constatato un sensibile aumento degli enti  che hanno scelto questa forma di cooperazione: segno ciò di una nuova cultura amministrativa che privilegia le sinergie e la funzionalità, intesa come ricerca di efficenza ed efficacia, anche superando il problema della diversa colorazione politica delle amministrazioni.

Il nuovo testo unico all’art. 33 riprende e sviluppa 1′ istituto associato delle funzioni fra comuni, introdotto dalla legge n. 265, prevedendo l’intervento delle regioni per favorire il processo di riorganizzazione sovracomunale dei servizi e delle funzioni esercitate dagli enti locali. Al fine di favorire l’esercizio associato delle funzioni dei comuni di minor dimensione demografica, è stata attribuita alle regioni la potestà di individuare, di concerto con gli enti locali interesati, livelli ottimali e sedi per l’esercizio delle funzioni  associate fra comuni e di prevedere forme di incentivazione  per  tali aggregazioni.

 

 

§  2  Nuovo ruolo del cittadino

 

1. Il cittadino

Il nuovo ordinamento delle autonomie locali, già nel testo approvato nel 1990, ha posto nella dovuta attenzione il ruolo che riveste il cittadino nella vita dell’ente locale, assumendo la qualità di protagonista dell’ente e non solo quella di utente, ed ha previsto nuove forme di partecipazione popolare alla vita pubblica. Il ruolo del cittadino nella vita dell’ente locale è stato rinforzato dalla legge n. 81/1993 che ha attribito agli elettori la potestà di eleggere direttamente, oltre il rispettivo organo consigliare, il sindaco ed il presidente della provincia.

In tale ottica la legge n. 142 ha previsto che lo statuto stabilisca come si svolgeranno i rapporti degli organismi di partecipazione con l’ente locale, individuando prioritariamente le comunità di quartiere e/o delle frazioni, che qualificano con le proprie peculiarità e tradizioni secolari le singole comunità. Nell’interesse dei cittadini è stata prevista, in caso di fusione fra comuni, la possibilità di istituire municipi nei territori delle comunità di origine o in alcune di esse, in modo da garantire dei servizi decentrati a favore delle comunità che hanno dato vita al nuovo ente. Inoltre all’art. 17 del d.lgs n. 267 si prevede che negli enti con oltre 100.000 abitanti siano istituite forme di articolazione del territorio comunale in circoscrizioni di decentramento delle funzioni amministrative, le quali invece sono facoltative nei comuni con popolazioni fra i 30.000 ed i 100.000 abitanti. Sulla medesima falsariga il legislatore ha previsto all’art. 8comma 5°, del d.lgs n. 267 la possibilità di attivare forme di partecipazione alla vita pubblica locale anche da parte di cittadini stranieri regolarmente soggiornanti: dal tenore di tale norma ne discende che il legislatore presuppone che gli enti locali attivino già autonomamente forme di partecipazione alla vita pubblica a favore dei cittadini italiani provenienti da altri comuni che sono temporaneamente presenti nel loro territorio.

Nello statuto devono essere ipotizzate forme di consultazione della popolazione nonché procedure per la presentazione di istanze di cittadini singoli o associati al fine di promuovere interventi per una migliore tutela degli interessi collettivi, con 1′ avvertenza che le consultazioni ed i referendum dovranno avere un’esclusiva attinenza locale. Nel prevedere queste forme di partecipazione e consultazione dei cittadini si deve tenere  nella dovuta considerazione l’economicità dell’azione amministrativa e quindi riservare il referendum, che è una forma di consultazione finanziariamente onerosa, solo agli argomenti di maggior spessore mentre per le altre necessità  si può ricorrere ad una consultazione tramite campionatura. Si fa presente che in materia di consultazioni il testo unico prescrive obbligatoriamente la consultazione dei cittadini solo nell’eventualità che si propongano delle modificazioni territoriali.

Sempre nell’interesse del  cittadino sono state previste particolari forme di partecipazione ai procedimenti che incidono sulle sue situazioni giuridiche soggettive degli interessati, nell’osservanza dei principi stabiliti dalla legge n. 241 e con le modalità fissate nello statuto.

Con la rivisitazione dell’ordinamento delle autonomie locali è stata introdotta la possibilità per ogni cittadino di attivare azioni giudiziarie in nome e per conto dell’ente locale, con l’avvertenza che, in caso di soccombenza dell’ente nel giudizio, le spese restano a carico del cittadino che ha avviavato il procedimento, salvo che l’ente costituendosi abbia aderito all’azione promossa dall’elettore. Con questo istituto il cittadino può esercitare in via di supplenza le cause che vedono coinvolti gli enti locali, esercitando con questo potere una forma pressione contro la mancata tutela de parte dell’ente locale dei propri interessi, che si identificano con quelli della collettività che l’ente rappresenta. Al cittadino è stata riconosciuta questa facoltà in quanto la mancata azione potrebbe comportare all’ente oltre a un danno di immagine anche un rischio di responsabilità erariale. Naturalmente le azioni intraprese devono spettare all’ente locale, nel senso che allo stesso deve essere riconosciuta la qualifica di legittimazione attiva alla proposizione dell’azione legale, sia in materia civile che in quelle penali, amministrative o tributaria. Analoga facoltà è stata riconosciuta alle associazioni di protezione ambientale per azioni risarcitorie  conseguenti a danno ambientale.

Particolare importanza è stata data al ruolo del cittadino prevedendo la figura del difensore civico che ha compiti di garanzia dell’imparzialità e del buon andamento dell’amministrazione comunale o provinciale nei confronti del cittadino. Suo compito è segnalare, anche di propria iniziativa, le disfunzioni, le carenze, gli abusi ed i ritardi dell’amministrazione. Per la sua istituzione è  necessario che lo statuto preveda le modalità per la sua elezione, le sue prerogative ed i rapporti con gli organi. Il d.lgs n. 267 ha confermato la norma che ha attribuito al difensore civico una funzione di controllo eventuale di legittimità sugli atti  dell’ ente: a nostro parere nella fattispace al difensore civico è stata attribuita dalla legge n. 265 una funzione impropria che si discosta da quelle che sono le sue funzioni storicamente testate ma che trova una logicità solo considerando l’imparzialità che deve connotare colui che è chiamato a coprire tale incarico; il legislatore poteva demandare questo compito ad altro organo ausiliario, quale potrebbe essere l’organo di revisione.

Una particolarità normativa, del tutto nuova nell’ordinamento giuridico e che riveste anche una connotazione di una maggior attenzione verso il cittadino, la rinveniamo nell’ art. 147 del nuovo testo unico nella parte in cui prevede l’attivazione di un controllo strategico sull’attività degli organi politici, controllo che di fatto consiste nella verifica sia dei risultati dell’attività amministrativa che della soddisfazione derivata al cittadino dai medesimi risultati.

L’interesse dedicato al cittadino dalla legge sulla riforma delle autonomie locali, dalla legge sulla trasparenza nella pubblica amministrazione e dalla legge sulla riforma della pubblica amministrazione ha suggerito al legislatore di inserire nella Costituzione, sulla scorta del prinicipio di sussidiarietà, il principio che lo stato, le regioni, le città metropolitane, le provincie ed i comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale.

 

 

2. La trasparenza

La nuova legge sulle autonomie locali ha avuto il pregio di codificare nel nostro ordinamento giuridico alcuni principi (all’epoca già oggetto di un orientamento costante della giurisprudenza amministrativa) quali la trasparenza dell’ azione amministrativa e 1′ accesso agli atti dell’ ente, che sono stati sviluppati dalla quasi coeva legge 7 agosto 1990 n. 241 in materia di procedimenti amministrativi: è da evidenziare che questa legge, riprendendo quanto già contenuto nella legge n. 142 all’art. 7 commi 3°, 4° e 5° ( ora confluiti nell’articolo 10 del d.lgs n. 267 ), ha il pregio di aver normato in tutti i settori della pubblica amministrazione la trasparenza dell’attività amministrativa, instaurando la prevalenza del comportamento dell’ accesso agli atti della pubblica amministrazione rispetto alla precedente cultura del segreto degli atti pubblici.

Non si deve ritenere che al cittadino sia consentito l’accesso indiscriminato agli atti dell’ ente: l’art. 22 e seguenti della legge n. 241 disciplinano compiutamente l’accesso agli atti a chiunque vi abbia interesse per la tutela di proprie situazioni giuridiche rilevanti   prevedendo sia la possibilità di un differimento dell’ostensione dell’atto che si vuole consultare che la possibilità di segretare, con la dovuta motivazione, determinati documenti. Su questi argomenti è bene richiamare il contenuto dell’ art. 15 del decreto del presidente della Repubblica 10.01.1957 n. 3 che impone al pubblico dipendente l’ obbligo di mantenere il segreto d’ufficio. A1 fine di rendere più trasparente ed intellegibile 1’attività degli atti amministrativi, è stato previsto da questa legge che ogni atto deve essere debitamente motivato e che 1’attività amministrativa non può essere appesantita se non per effettive esigenze imposte dallo svolgimento dell’ istruttoria. Nella motivazione particolare attenzione va riservata all’ interesse pubblico sotteso al provvedimento ed alla sua prevalenza rispetto 1′ interesse privato; è opportuno che, per garantire un’effettiva trasparenza dell’ azione amministrativa, nel contesto dell’atto sia fatta menzione dei procedimenti istruttori che devono supportare ogni provvedimento. Uno dei presupposti della trasparenza è la partecipazione dei cittadini: essi devono essere informati dall’amministrazione dell’ esistenza di un procedimento che può incidere sulla loro sfera giuridica, con l’invito a prendere visione della relativa documentazione : questo principio è stato a suo tempo codificato dalla legge n.142 all’art. 6 comma secondo. Un ruolo preminente in quest’ottica spetta alla comunicazione di avvio del procedimento, con la quale si partecipa all’interessato che, a seguito dell’ avvio di quel procedimento, può prendere contatto con 1′ amministrazione indicandogli l’ufficio che è preposto alla relativa pratica ed il funzionario che è responsabile del procedimento, a cui potrà rivolgersi per avere informazioni: con tale comunicazione il cittadino viene messo in grado di esercitare il contraddittorio con l’amministrazione. Si fa presente che 1’avvio del procedimento va notiziato anche a coloro che possono avere in merito un interesse qualificato (i c.d. cointeressati), anche se non rappresentano il diretto destinatario del procedimento. Sempre nell’ottica della trasparenza è previsto che ogni amministrazione deve stabilire il termine entro il quale ogni tipo di procedimento deve essere ultimato: qualora non sia previsto dall’ente alcun termine per la conclusione di un procedimento, la legge dispone che lo stesso deve essere ultimato entro 30 giorni. Ad integrazione di tale disposizione è stato previsto che in base alla singola fattispecie di richiesta, che viene proposta all’ ente e che va predeterminata con apposito regolamento da parte di ciascuna amministrazione, alla scadenza del termine prefissato dalla presentazione di una domanda se non è stata data alcuna risposta dall’amministrazione, la richiesta formulata con il silenzio dell’ amministrazione s’intende accolta o respinta: con questa norma viene facilitato il cittadino che può così iniziare un’attività senza dover attendere una risposta dall’amministrazione ed al tempo stesso viene salvaguardato 1′ utente da prolungati e immotivati silenzi dell’ amministrazione addita. La legge n. 241, prevedendo la figura del responsabile del procedimento e dei termini entro il quale lo stesso va concluso, ha il pregio di aver spostato 1’asse dell’attenzione dal singolo provvedimento al procedimento amministrativo, alla cui conclusione possono concorrere una sequenza di atti: conseguentemente con i principi contenuti nella legge n. 241 viene data maggior considerazione al comportamento della pubblica amministrazione rispetto al perfezionamento del singolo atto. La maggior attenzione  data da questa legge al procedimento amministrativo è la conseguenza logica della presa di coscienza che non è più il singolo atto che qualifica l’ attività amministrativa e che talvolta più atti formalmente legittimi possono concorrere al raggiungimento di un risultato illecito. Per rendere effettivi questi principi 1′ art. 18 della legge n. 241 ha previsto 1’obbligo per tutte le amministrazioni pubbliche di adottare entro sei mesi dalla sua entrata in vigore appositi regolamenti idonei a garantire 1’applicazione delle disposizioni in materia di autocertificazioni e presentazioni di documenti da parte di cittadini, ai sensi della legge 4 gennaio 1968 n. 15: questa norma rappresenta la fine della cultura del sospetto della pubblica amministrazione verso il cittadino, che ora viene responsabilmente coinvolto nelle procedure amministrative. La trasparenza degli atti della pubblica amministrazione ha indotto il legislatore a porre particolare attenzione alla riservatezza dei dati personali, di cui vengono in possesso sia pubbliche amministrazione che società private, promulgando la legge 31 dicembre 1996 n. 675 che prevede, a tutela della riservatezza del singolo cittadino, una limitazione al trattamento dei dati personali sensibili in possesso di ogni ornanizzazione di servizi, dato che le stesse hanno la facoltà di acquisire diversi dati dai soggetti privati, per perseguire i suoi scopi istituzionali.

Il d.lgs n. 267 ha preso atto anche dell’ evoluzione avvenuta nei sistemi di informazione e di archiviazione dei dati acquisiti dall’ amministrazione con la propria attività e all’ art. 12 ha disciplinato i principi ai quali si devono attenere i sistemi informativi e quelli statistici.

In linea con i principi disposti dalla legge n. 241 è la riforma del processo amministrativo, approvata con la legge 21 luglio 2000 n. 205, che a vantaggio del cittadino prevede la riduzione dei termini processuali e la possibilità di stare in giudizio senza 1′ assistenza di un difensore contro il silenzio o il diniego della pubblica amministrazione: infatti, una giustizia che arriva in ritardo si deve considerare una non giustizia e non è equo che il cittadino per difendersi da un comportamento di un’amministrazione debba sempre sostenere gli oneri di un patrocinatore. Sempre sulla falsariga della trasparenza è stata emanata la coeva legge 27 luglio 2000 n. 212, che prevede disposizioni   sulla trasparenza normariva nei procedimenti tributari (legge conosciuta anche come Statuto del Contribuente).

La normativa in materia di documentazione nell’attività amministrativa in base all’ art. 7 della legge 8 marzo 1999 n. 50 (legge di semplificazione del 1998) è  stata oggetto di una direttiva di armonizzazione della legislazione esistente sull’argomento: il  conseguente decreto del presidente della repbblica 28 dicembre 2000 n. 445 amalgama in un testo unico le disposizioni legislative e regolamentari esistenti in materia di documentazione amministrativa.

 

 

§ 3 La centralità del capo dell’ amministrazione

 

1. La funzione di indirizzo e la funzione di gestione

Una delle novità di maggior rilievo introdotte dalla legge n. 142 è il principio, allora del tutto nuovo nel nostro ordinamento giuridico, che agli organi elettivi compete il potere d’indirizzo e controllo, mentre agli organi burocratici spetta la gestione amministrativa dell’ente anche con rappresentanza esterna. Con l’introduzione di questo principio è  stato  attuato  un  epocale  cambiamento  di  cultura  nella  gestione  pubblica, dato  che  le imprecise distinzioni nel passato delle sfere di competenza fra l’organo politico e quello burocratico, spesso comportavano un palleggiamento delle responsabilità. Il nuovo ordinamento, attuando una diversa ottica di riparto delle competenze, ha dato la dignità di organo dell’ ente ai dirigenti e coassialmente ha meglio delineato gli  spazi entro cui si devono muovere gli organi politici e quelli burocratici, pur permettendo fra di loro dei momenti di forti integrazioni e di virtuose sinergie. In questo contesto sono state ridisegnate le funzioni degli organi dell’ente, considerando la circostanza che nel precedente ordinamento la rappresentanza esterna, anche per le più semplici funzioni amministrative, competeva solo agli amministratori. Da questo principio di separazione delle competenze discende la necessità di un controllo interno all’ente locale che consenta di verificare il raggiungimento delle scelte definite in sede politica. Per il cittadino ciò ha comportato un cambiamento del suo approccio con gli amministratori che ora, avendo solo il potere di indirizzo politico e di controllo strategico, possono interferire sulle decisioni che prendono i dirigenti nella gestione dei servizi solo con l’emanazione di atti di indirizzo, che talvolta possono essere anche dettagliati nei particolari: conseguentemente il cittadino per il funzionamento dei servizi si deve rivolgere direttamente al dirigente responsabile per materia, mentre per le modaliaà di gestione degli stessi continuerà a far capo al rappresentante politico. In questa divisione delle competenze fra organi politici ed organi burocratici, la potestà regolamentare può riservare al segretario dell’ente la competenza a risolvere gli eventuali conflitti  di competenza che potessero sorgere fra gli organi, essendo egli all’interno dell’ente il soggetto che risponde della conformità dell’azione amministrativa alla legge, allo statuto ed ai regolamenti.

In materia di separazione delle competenze l’art. 107 del t.u. al comma  5° prevede che, dalla sua entrata in vigore, le disposizioni che conferiscono agli organi politici l’adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi si devono intendere nel senso che le relative competenze spettano ai dirigenti, con l’eccezione delle funzioni attribuite al sindaco e al presidente della provincia dalle leggi, dallo statuto e dai regolamenti: analoga dipsosizione era stata già espressa dall’art. 45 del d.lgs 31.03.1998 n. 80, ma la stessa poteva essere considerata come riferita solo alle amministrazioni ministeriali. Ora con la sua riproposizione nell’ordinamento degli enti locali viene tolto ogni dubbio sulla sua applicabilità e ne consegue la possibilità di una declaratoria di nullità degli atti amministrativi di comuni e province che venissero impropriamente assunti da un organo non competente.

Perché la separazione delle competenze possa rappresentare un progresso nelle modalità di gestire l’ente locale si deve garantire:

a)      la disponibilità degli amministratori a rinunciare di fatto a prerogative gestionali;

b)      la loro capacità di formulare indirizzi politici concreti e non velleitari, frammentari o connotati da continui cambi di direzione;

c)      l’attribuzione di deleghe assessoriali strutturate su obiettivi politici concreti piuttosto che su funzioni tecniche;

d)     la predisposizione di un controllo strategico che consenta la verifica dell’attuazione delle direttive e del raggiungimento degli obiettivi sia in corso d’opera che a consuntivo.

In questo quadro della distinzione delle competenze è impropriamente intervenuta la legge finanziaria per l’anno 2001 (la legge n. 388 del 23.12.2000) che all’art. 53, comma 23, prevede che nei comuni con meno di 3.000 abitanti, in deroga alle disposizioni vigenti e riesumando una norma che era già stata abrogata, si possano adottare disposizioni regolamentari che attribuiscono ai componenti l’organo esecutivo la responsabilità gestionale degli uffici e dei servizi. Si ritiene opportuno che l’avocazione degli atti di gestione ai componenti della giunta debba essere subordinata alla verifica della presenza all’interno dell’organo esecutivo di apposite figure professionalmente preparate. La ratio di questa disposizione può essere rinvenuta nell’eventualità che   l’attribuzione delle posizioni organizzative sia troppo onerosa per l’ente, ma al riguardo si deve eccepire che gli amministratori devono individuare con oculatezza all’interno del proprio ente le figure organizzative. La norma, che ridonda a disconoscimento del principio della separazione dei poteri e della responsabilizzazione degli amministratori nel creare uffici unici fra più enti con lo strumento delle convenzioni (proprio per garantire l’efficacia e l’efficienza dei servizi), in alternativa a tale attribuzione di funzioni all’organo politico prevede l’ipotesi che il sindaco affidi i compiti gestionali in questione al segretario dell’ente. In ambedue i casi deve essere dimostrata la mancanza non rimediabile di figure professionali nell’ambito dei dipendenti ed il contenimento della spesa derivante dalla decisione, contenimento che deve essere documentato annualmente con apposita delibera in sede di approvazione del bilancio.

Il principio della separazione dei poteri ed il coassiale restringimento dei controlli esterni di legittimità sugli atti impongono un nuovo tipo di controllo sulla gestione dell’ente per garantire il principio di una verifica della buona amministrazione. Questa nuova fattispecie di controlli effettuata, sulla base di criteri e parametri di natura non necessariamente giuridica, fra quanto preventivamente ipotizzato (obiettivi) e quanto realizzato (risultati), verifica tempi, modi e costi dell’azione amministrativa. La nuova tipologia dei controlli era stata codificata dall’art. 20 del d.lgs n. 29/1990 purtroppo con una terminologia non precisa, che ha permesso nel passato una commistione fra controllo di gestione e valutazione del personale dirigenziale: ora l’art. 147 del t.u. prevede una precisa individuazione dei vari controlli, per cui gli stessi non possono essere disattesi.

Il principio di separazione assume i connotati tipici delle norme fondamentali delle riforme socio-economiche che costituiscono un limite anche alla potestà legislativa regionale eslusiva. Questo principipo è l’attuazione dei principi costituzionali dell’imparzialità e del buon andamento, che secondo la legislazione più recente è meglio garantita dall’assagnazione della gestione dei funzionari che sono al servizio della Nazione e che sono in possesso di maggiori cognizioni tecnico-giuridiche e quidi meglio in grado di attuare questi principi costituzionali.

 

2. Il capo dell’amministrazione

La funzione di rappresentante legale dell’ ente locale giustamente è rimasta attribuita al capo dell’ amministrazione e allo stesso ora compete di diritto il riconoscimento di organo esponenziale della cittadinanza, essendo divenuto con la legge n. 81 espressione diretta della volontà popolare e non più del consiglio dell’ ente. Il testo unico all’ art. 6 demanda allo statuto le modalità di esercizio della rappresentanza esterna che, anche in giudizio, può essere assegnata ad altri soggetti, individuando in primo luogo i dirigenti. L’attuale sistema di elezione diretta del capo dell’amministrazione e l’ attribuzione di un premio di maggioranza alla lista dei consiglieri collegati con il candidato eletto sindaco o presidente della provincia, assicurano una maggior stabilità politica all’ amministrazione dell’ ente locale ed imprime al suo capo un carisma di centralità nella direzione strategica dell’ ente, che non si rinveniva nel precedente ordinamento. Da questa nuova posizione del sindaco e del presidente della provincia ne consegue l’ attribuzione della titolarità di alcune proprie funzioni di indirizzo, il potere di nominare i componenti della giunta (fra i quali un vicesindaco o un vicepresidente) i cui nominativi vengono comunicati al consiglio nella prima seduta successiva alle elezioni (nel precedente ordinamento competeva al consiglio eleggere la giunta) nonché la circostanza che un suo impedimento permanente o le sue dimissioni implicano lo scioglimento della giunta e del consiglio. Il sindaco e il presidente della provincia entrano in carica direttamente con la proclamazione dei risultati elettorali (precedentemente per il loro insediamento si doveva attendere l’ esecutività della deliberazione della loro nomina ed il loro giuramento davanti al prefetto). Al capo dell’ amministrazione compete nominare i rappresentanti dell’ ente presso enti ed istituzioni, restando riservata al consiglio la determinazione dei criteri con cui vanno effettuate queste nomine. Al sindaco e al presidente della provincia è attribuita la facoltà di nomina del segretario e del direttore dell’ ente, nonché dei responsabili degli uffici e dei servizi nonché l’attribuzione degli incarichi dirigenziali, che assumono di conseguenza la connotazione di funzionari di fiducia del capo dell’amministrazione alla pari dei consiglieri del presidente o del primo ministro esistenti nel sistema politico anglosassone. La centralità della figura del capo dell’amministrazione è stata ulteriormente rafforzata prevedendo la possibilità di costituire, secondo le indicazioni del regolamento degli uffici e dei servizi, degli uffici posti alle dirette dipendenze del capo dell’ amministrazione o degli assessori per l’ esercizio della funzione di indirizzo e di controllo loro attribuite dalla legge, purché 1′ ente non abbia dichiarato il dissesto o non versi in situazioni strutturalmente deficitarie (art. 90 del t.u.). Si puntualizza che i collaboratori fiduciari del capo dell’amministrazione, assunti con contratto a tempo determinato, decadono automaticamente dall’incarico qualora il sindaco o il presidente della provincia che li ha nominati cessi dalle sue funzioni per qualsiasi motivo prima del termine indicato nel loro contratto di assunzione a termine. Al fine di armonizzare nel territorio comunale 1’espletamento dei servizi con le esigenze complessive e generali degli utenti, il sindaco d’ intesa con i responsabili territorialmente competenti delle amministrazioni interessate fissa gli orari di apertura al pubblico degli uffici pubblici localizzati sul territorio comunale, nonché gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici; queste ultime competenze sindacali sono state riprese  e sviluppate dalla legge 8 marzo 2000 n. 53, che agli artt. 22 e seguenti prevede una dettagliata regolamentazione dei tempi della città. Su queste competenze del  sindaco si sofferma anche il nuovo t.u. al 7° comma dell’ art. 50, mentre al successivo art. 54 elenca in particolare le attribuzioni del sindaco nelle materie di competenza statale. Si rende opportuno evidenziare che, nei comuni ove non siano istituiti commissariati di polizia, le attribuzioni di autorità locale di pubblica sicurezza sono esercitate dal sindaco (art. 15 legge 1 aprile 1981 n. 121) e che, nei comuni ove non abbia sede un ufficio di polizia di stato ovvero un comando dell’arma dei carabinieri o della guardia di finanza,  egli è anche ufficiale di polizia giudiziaria (art. 57 codice di procedura penale).

Senza addentrarci sul tema delle cause di ineleggibilità ed incompatibilità degli amministratori, che il t.u. ha riassemblato agli artt. 55 e seguenti, si ritiene opportuno richiamare i contenuti della  sentenza della Cassazione n. 6199 in materia di permanenza in carica di un pubblico amministratore successivamente ad una sua condanna per un reato che costituisce causa di incompatibilità: la sentenza afferma che i pubblici amministratori condannati con verdetto definitivo non sono tenuti a dimettersi in seguito alla condanna, ma solo quando il prefetto attiva le procedure di sospensione, in quanto non si può sottrarre agli enti locali, in quanto enti autonomi, la competenza ad essi demandata a pronunciarsi sulla decadenza dei propri amministratori per sopravvenute cause di ineleggibilità.

Infine si ritiene opportuno richiamare i contenuti dell’art. 2 bis del decreto legge n. 392/2000 convertito con modificazioni nella legge n. 26/2001, emanato dal governo per disposizioni conseguenti al differimento dei termini di approvazione del bilancio del 2001 ma integrato in sede di conversione parlamentare con un caleidoscopio di disposizioni, in quanto introduce il principio di solidarietà e collaborazione fra enti locali e le altre pubbliche amministrazioni prevedendo che gli enti locali non debbono rimborsare i permessi utilizzati dai propri amministratori che siano pubblici dipendenti.

La figura del capo dell’amministrazione che è stata forgiata in dieci anni di riforma delle autonomie locali deve possedere la capacità di individuare quello che si deve prevedere e la capacità di far utilizzare al meglio le risorse necessarie per l’attuazione dei vari progetti.

L’impegno che viene chiesto ai sindaci ed ai presidenti dellle province ha ricevuto con la legge n. 265 un riconoscimento numerario prevedendo una indennità di fine mandato (art. 82 del d.lgs n. 267) corrispondente alla misura di una mensile dell’indennitò di carica per ogni anno di mandato. Lo scopo di tale liquidazione è quello di compensare gli amministratorri degli effetti negativi che hanno ricevuto nella loro attività lavorativa dagli impegni politici. La norma non fa distinzione dei destinatari per tipologia di attività svolta e quindi si applica indistintamente a tutti gli amministratori, la cui indennità invece era originariamente commisurata al tipo di attività lavorativa che svolgevano. La decorrenza di questo beneficio ha effetto dalla data di emanazione del decreto ministeriale 27 maggio 2000 n. 119 che regola l’erogazione delle indennità.

 

3. La giunta

Precedentemente aveva una vita autonoma rispetto il sindaco per cui era più forte

In considerazione delle funzioni programmatiche attribuite alla giunta, che possono rendere opportuna la presenza di un amministratore professionalmente preparato, è stato previsto che possono farne parte anche cittadini scelti al di fuori dei componenti il consiglio: la norma vuole permettere la presenza in giunta di assessori qualificati, ma non l’eventuale ripescaggio di candidati che non hanno superato il vaglio della consultazione elettorale. Il testo unico all’art. 47 fissa il numero massimo degli assessori che compongono la giunta, ma lascia allo statuto la possibilità di demandare ad altro organo (consiglio o sindaco) la concreta individuazione del numero degli assessori da nominare nel proprio ente. La legge n. 142 aveva rivisitato le competenze della giunta trasformandola in un organo di collaborazione con il capo dell’amministrazione e la successiva legge n. 265 ha rafforzato il ruolo della giunta, prevedendo che la presentazione al consiglio da parte del sindaco o del presidente della provincia del proprio programma di mandato avvenga solo dopo aver sentito sull’ argomento la giunta (il testo originario della legge n. 81 prevedeva che la presentazione di questo documento venisse effettuata dal capo dell’ amministrazione prima della nomina della giunta). Nel precedente ordinamento alla giunta era concessa la facoltà di surrogare in caso di urgenza il consiglio, ma il cattivo uso di questa facoltà spesso limitava il potere del consiglio anche su decisioni importanti, alla sola ratifica di quanto precedentemente deciso dalla giunta: ora questo potere surrogatorio è stato circoscritto alle sole variazioni di bilancio, con 1′ avvertenza che nell’ attuale ordinamento questi atti devono essere ratificati dal consiglio entro sessanta giorni dalla loro adozione e comunque entro la fine dell’ esercizio finanziario, pena la loro decadenza. Le funzioni di impulso all’ attività amministrativa spettanti alla giunta nel precedente ordinamento venivano compresse da una serie di incombenze amministrative che avevano connotazioni gestionali e non strategiche, incombenze ora attribuite agli organi burocratici. Alla giunta spetta 1′ adozione di atti d’indirizzo politico dell’ attività amministrativa ed altri compiti di rilievo fra i quali sì menziona l’ approvazione del piano esecutivo di gestione, l’ approvazione dei progetti di opere pubbliche, 1’approvazione del regolamento sull’ ordinamento degli uffici e dei servizi, l’ adozione dello schema del bilancio di previsione e del rendiconto, la fissazione delle aliquote dei tributi e delle tariffe dei servizi, l’adozione del piano triennale delle opere pubbliche. La competenza attuale della giunta è di carattere residuale essendole attribuita l’ adozione degli atti non spettanti ad altri organi.

 

4. Il consiglio

Uno dei principali pregi della legge n. 142 è stato il riordino delle competenze degli organi dell’ ente locale, che nel precedente ordinamento si intrecciavano creando ad una confusione dei rispettivi ruoli, che male si coniugava con il principio del buon andamento e che rendeva difficile sia l’ individuazione dei titolari dei risultati positivi che l’ attribuzione delle eventuali responsabilità. Il nuovo ordinamento degli enti locali ha attribuito al consiglio dell’ ente la funzione di organo di indirizzo e controllo politico‑amministrativo, nonché la competenza all’adozione dei soli atti fondamentali, sui quali esercita una competenza esclusiva. La vecchia legge comunale e provinciale attribuiva al consiglio dell’ ente anche dei compiti di mera gestione amministrativa che di fatto svilivano le sue funzioni di indirizzo politico quale organo esponenziale della cittadinanza.  La funzione di indirizzo e controllo del consiglio dell’ente locale è stata rafforzata dal nuono testo unico riassemblato e armonizzato agli artt. 37 e seguenti la normativa preesistente: il terzo comma dell’art. 42 in particolare, mutuando una previsione della legge n. 265, dispone che il consiglio procede, secondo le modalità fissate dallo statuto, alla definizione, all’adeguamento ed alla verifica periodica delle linee programmatiche presentate dal capo dell’amministrazione e dai singoli assessori; il consiglio ora ha quindi la facoltà di intervenire anche sull’impostazione contenutistica delle linee programmatiche del capo dell’ amministrazione. Un supporto alle funzioni strategiche  del consiglio viene data dall’organo di revisione che ai sensi dell’art. 239, comma 1°, ai punti a) e c) collabora con il consiglio nella sua funzione di controllo ed indirizzo: questa funzione attribuita ai revisori deve essere esercitata tramite una collaborazione attiva, che non attende il passivo momento della convocazione da parte dei consiglieri e che può essere garantita solo con un costante esame dei punti di criticità della gestione e da un’apertura alle istanze di tutte le componenti politiche del consiglio. Si deve menzionare anche che l’organo di revisione è tenuto a notiziare al consiglio dell’ente eventuali irregolarità che riscontra nella gestione.

La funzione del consiglio di organo esponenziale della propria cittadinanza è stata rinforzata anche dalla circostanza che il giuramento del capo dell’ amministrazione di osservare lealmente la Costituzione italiana e le sue leggi viene fatto non più davanti al prefetto ma davanti al consiglio dell’ ente nella seduta di insediamento.

La valenza politica del consiglio comunale e provinciale poteva registrare una regressione dall’ elezione diretta del capo dell’ amministrazione, ma il legislatore gli ha contestualmente attribuito una autonomia funzionale dal capo dell’ amministrazione prevedendo la figura del presidente del consiglio nelle province e nei comuni con oltre quindicimila abitanti, stabilendo che, ove lo statuto non dia alcuna indicazione sulle modalità di nomina, le funzioni di presidente del consiglio vengono svolte dal consigliere anziano. La legge lascia alla facoltà degli statuti dei comuni minori di stabilire, nell’impostazione del proprio assetto istituzionale, l’eventuale presenza del presidente del consiglio. Il presidente del consiglio deve assicurare una adeguata e preventiva informazione ai capigruppo consiliari ed ai singoli consiglieri sulle questioni sottoposte al vaglio del consiglio. Con la legge n. 265 è stata istituzionalizzata anche una autonomia funzionale  ed organizzativa del consiglio, prevedendo la possibilità di istituire appositi uffici per il funzionamento del consiglio, demandando ai regolamenti la disciplina delle modalità di assegnazione di servizi, attrezzature e risorse finanziarie.

La figura dei capigruppo consiliari, precedentemente individuata solo dai regolamenti sul funzionamento del consiglio, è stata positivata nell’ordinamento giuridico dalla legge n. 142 all’ art. 45, che prevede la comunicazione ad essi di alcune specifiche deliberazioni, sulle quali un determinato numero di consiglieri può chiedere che il CO.RE.CO eserciti il controllo preventivo di legittimità. Le funzioni di sindacato del consiglio sono state rafforzate dalla legge n. 265 che ha attribuito alle opposizioni consiliari la presidenza delle commissioni consiliari permanenti, ove costituite, aventi funzione di controllo o di garanzia. Ai consiglieri è consentito l’accesso agli atti amministrativi per l’esercizio delle funzioni connesse alla carica, però le loro richieste di accesso non  devono essere generiche ma consentire l’identificazione dei supporti documentali che essi intendono consultare e le richieste di estrazioni di copie possibilmente non devono riferirsi a documentazioni particolarmente voluminose.

Il nuovo ordinamento delle autonomie locali ha fatto chiarezza sui compiti spettanti al consiglio dell’ente, che nel passato ordinamento era investito di una miriade di funzioni che sminuivano la sua funzione di organo esponenziale della cittadinanza. Inoltre la giunta è stata spogliata della sua funzione surrogatoria del consiglio, che nel precedentemente ordinamento si trovava spesso a ratificare decisioni che la giunta aveva autonomamente assunto su materie di sua competenza. All’organo di governo è stata mantenuta la facoltà di assumere provvedimenti di competenza consigliare per motivata urgenza limitatamente alle variazioni di bilancio, ma con la prescrizione che le stesse vanno ratificate dal consiglio a pena di decadenza entro 60 giorni. In ragione dell’elizione di questa competenza surrogatoria della giunta il legisalatore ha previsto che il consiglio dura in carica sino all’elezione del nuovo organo assembleare, prevedendo però che esso, dopo la pubblicazione del decreto di indizione dei comizi elettorali,  possa adottare solo gli atti urgenti ed improrogabili: queste evenienze eccezionali sono da rinvenire in quegli atti la cui mancata assunzione comporti un danno all’ente o si configuri come un inadempimento in relazione a precisi obblighi nascenti da leggi o da provvedimenti amministrativi indifferibili.

 

5. L’ evoluzione dei controlli

Per inquadrare l’attuale posizione della struttura burocratica  dell’ente locale ci si deve rifare ai principi della distinzione fra competenze degli organi di indirizzo e controllo e quelle degli organi gestioneli ed al mutato quadro di controlli sull’attività dell’ente. Nel contesto della maggior autonomia concessa agli enti locali e della contestuale limitazione dei controlli esterni sulla loro attività, dal legislatore era stata avvertita l’esigenzadi garantire la correta ed economica gestione delle risorse, l’imparzialità ed il buon andamento dellaamministrazione locale, nonché la trasparenza dell’azione amministrativa. Su questa falsariga l’art. 147 del t.u. rifacendosi a quanto già indicato dal d,lgs. N. 286 indica quali controlli vanno effettuati all’interno dell’ente locale. Si deve tenere in evidenza che i controlli, in qualunque maniera vengono esercitati, devono essere propositivi e non repressivi, anche se talvolta si manifestano con effetti ablatori: pertanto il soggetto titolare del potere di controllo ha l’ obbligo di motivare le sue manifestazioni di volontà o di conoscenza, specie quando l’esito dell’ attività di controllo non sia lapalissiano.  La riforma del sistema dei controlli sull’attività di comuni e province era stata posta come obiettivo principe da diverse forze politiche fin dai primi anni cinquanta, ma il legislatore per motivi di opportunità politica era restio a lasciare agli enti locali quello spazio di autonomia che gli era riconosciuto dalla Costituzione. Infatti, dopo la conclusione di quella crisi economica che aveva prostrato il nostro Paese nel dopoguerra e che poteva giustificare un sindacato delle autorità statali nella gestione degli enti locali, era mal accettata una legislazione che imponeva la sottoposizione agli organi di controllo esterni perfino un atto con cui si liquidava il pagamento di una fattura di carburante, dato che la Costituzione acclarava l’autonomia degli enti locali. Inoltre la legge 10 febbraio 1953 n. 62, che prevedeva la costituzione degli organi regionali di controllo in sostituzione delle ancestrali Giunte Provinciali Amministrative operanti presso le Prefetture, è rimasta sulla carta fino al 1970. Il legislatore è intervenuto su questa materia con provvedimenti parziali finché nel 1990, sotto la pressione di quel movimento di opinione, che chiedeva riforme di spessore, sorto dopo la conoscenza degli scandali di tangentopoli, ha messo in cantiere due leggi epocali che hanno riformato la pubblica amministrazione. La legge 8 giugno 1990 n. 142, sul nuovo ordinamento degli enti locali, e la legge 7 agosto 1990 n. 241, che detta nuove norme in materia di procedimenti amministrativi, hanno enunciato diversi principi che sono stati poi recepiti e sviluppati dalla legge delega 23 ottobre 1992 n. 421. In particolare era stata evidenziata l’ opportunità di introdurre procedure di controllo che garantissero in maniera effettiva che l’ azione amministrativa sia svolta, oltre che nei limiti della legittimità, secondo principi di economicità, efficacia ed efficienza. Sulla scorta della delega contenuta nella legge n. 421 è stato successivamente emanato il decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29, teso a razionalizzare l’ organizzazione delle amministrazioni pubbliche e a revisionare la disciplina del pubblico impiego,la cui evoluzione normativa ha portato al superamento dei controlli ministeriali sugli atti che prevedono un nuovo organigramma del personale dipendente degli enti locali.

In questo quadro normativo, parallelamente all’ attribuzione di una maggior autonomia agli enti locali, sono stati radicalmente ridotti i controlli esterni e si sono sviluppate norme che prevedono nuove forme di controllo che garantiscano comunque l’attuazione del principio del buon andamento della pubblica amministrazione. Con queste leggi si attua nella gestione degli enti pubblici un progressivo restringimento dell’ area regolata dal diritto pubblico ed una contestuale evoluzione verso modelli propri della disciplina privatistica. Il quadro normativo che ne è derivato nel corso degli anni, è stato aggiornato a sua volta dalle due leggi Bassanini (la legge 15 marzo 1997 n. 59  e la legge 15 maggio 1997 n. 127). Queste leggi hanno dato vita ad un coacervo di diverse fattispecie di controllo interno, che erano quasi sconosciute nella legislazione anteriore agli anni ottanta.

Negli enti locali la normativa sui controlli interni ha avuto una evoluzione  temporale anteriore rispetto gli altri settori della pubblica amministrazione, in virtù dei principi contenuti nella legge n. 142, principi che nel 1990 erano innovativi non per l’ intero ordinamento giuridico. Ogni amministrazione poteva già allora inserire, negli spazi lasciati liberi dalla legge all’ autonomia locale, quelle norme regolamentari che in materia di controlli interni riteneva opportune: ciò con l’intento di sburocratizzare l’ azione amministrativa, non deregolamentando la materia ma fissando regole più snelle e più consone alla realtà di ciascun ente.

Il nuovo ordinamento ha introdotto, accanto al principio della legittimità dei singoli atti, il principio dell’ efficacia, dell’ efficienza e dell’ economicità dell’ azione amministrativa poiché l’ ente locale, alla pari di ogni azienda, deve adottare nel suo operato criteri che analizzino la qualità dei risultati e non solo attenersi a procedure che gratificano il controllo preventivo di legittimità sui singoli atti, che sono il presupposto delle attività dell’ente. L’assimilazione di questi principi ha spostato 1′ asse del sistema dei controlli dal controllo sugli atti, che viene esercitato da un organo esterno all’ ente, al controllo sui risultati della gestione, che viene esercitato all’ interno dell’ente. Il legislatore del 1990 di conseguenza ha previsto che vengano limitati i controlli preventivi di legittimità sugli atti e che venga effettuata una più approfondita analisi sui risultati consuntivi dell’ azione amministrativa, senza togliere la funzione di documento principe al bilancio di previsione. Il processo di aziendalizzazione comporta che all’ interno dell’ organizzazione amministrativa si dovrà affermare sempre di più una logica di gestione per obiettivi, in alternativa alla tradizionale gestione per compiti. Si devono quindi creare condizioni di maggiore autonomia e responsabilità a tutti i livelli della scala gerarchica. Ciò implicherà il passaggio da una prelazione degli aspetti relativi alla suddivisione delle attività per competenze, ad una maggior attenzione alla definizione delle mansioni e all’analisi procedurale per individuare le condizioni ottimali per il perseguimento degli obiettivi aziendali. Il controllo di conseguenza si dovrà spostare dai meccanismi classici della supervisione gerarchica (controllo tecnico e dei comportamenti) e delle verifiche di controllo formale sugli atti, ad una verifica dei risultati conseguiti rispetto gli obiettivi programmati ed a un’ analisi degli scostamenti fra ciò che si doveva realizzare e ciò che si è raggiunto.

 La previsione normativa che l’organizzazione degli uffici e dei servizi sia svolta in conformità a criteri di autonomia, funzionalità ed economicità di gestione e secondo principi di professionalità e responsabilità, implica 1′ adozione  di strumenti di  verifica dell’ attività dell’ ente e dei suoi organi. L’attività dell’ente in base al principio dell’ autonomia può essere analizzata  tramite il controllo di gestione ed il controllo strategico (su quest’ultimo la nostra attenzione si è già precedentemente soffermata); l’attività degli organi politici va invece monitorata da parte degli organi istituzionalmente preposti (consiglio ed elettori) con le verifiche sul raggiungimento dei programmi approvati, mentre quella degli organi burocratici  con la valutazione del personale, sia per quelle con funzioni dirigenziali che per quelle con funzioni esecutive. Il d.lgs n. 267 all’art. 147 richiama i principi sulla valutazione dei dirigenti, facendo riferimento a quanto previsto dal d.lgs n. 29 sul riordino del pubblico impiego, mentre gli strumenti di verifica dell’attività del personale degli enti locali sono stati regolati dai contratti collettivi di lavoro, i cui principi sono fissati dal medesimo decreto 29.

L’art. 20 del d.lgs n. 29 nella sua originaria formulazione introduceva nel nostro ordinamento per tutte le pubbliche amministrazioni i nuclei di valutazione per la verifica dei risultati raggiunti dai dirigenti, posti all’ interno di ogni ente in posizione di autonomia e alle dipendenze degli organi di direzione politica con specifico riferimento alla verifica dei risultati raggiunti. Nel contesto della riforma dell’ ordinamento della Corte dei Conti era stato inserito un articolo nel decreto-legge 15 maggio 1993 n. 143 l’art. 8 che prevedeva l’attivazione di controlli interni in tutte le amministrazioni pubbliche con il compito di verificare, mediante valutazioni comparative dei costi e dei rendimenti, la corretta gestione delle risorse pubbliche, l’imparzialità ed il buon andamento dell’ azione amministrativa. Questo articolo però è stato stralciato nelle successive reiterazioni del decreto, ma i suoi contenuti sono stati trasfusi nelle modifiche apportate all’ art. 20 del d.lgs n. 29  con l’art. 6 del d.lgs n. 470/93, che ha aggiunto la dizione “servizi di controllo interno” in alternativa ai nuclei di valutazione, specificando che questi organi venivano preposti alla verifica, mediante valutazioni comparative dei costi e dei rendimenti, della realizzazione degli obiettivi, della correttezza ed economicità della gestione delle risorse pubbliche, dell’ imparzialità e del buon andamento dell’ azione amministrativa. I compiti così attribuiti a questi organi risultavano estesi da quella che era solo una valutazione dell’ operato del personale dirigenziale, anche ad una valutazione economica della gestione dell’ ente e ad una valutazione sulle modalità di svolgimento della attività amministrativa. L’applicazione di questa norma si è sviluppata in una molteplicità di formule organizzative e di compiti assegnati a questi organi, tali da necessitare una norma che facesse chiarezza della formulazione usata dal legislatore delegato. L’orientamento prevalente della prassi intrapresa aveva delineato il più delle volte degli organi, seppure validi sotto l’ aspetto professionale, con funzioni difformi dall’ intento del legislatore (che voleva attivare una verifica dell’ economicità e del buon andamento nella gestione della pubblica amministrazione nonché una verifica dell’ operato dei dirigenti). Si è constatato infatti che gli uffici per il controllo di gestione o i nuclei di valutazione, ove costituiti,  effettuavano analisi sui costi e benefici dell’ attività amministrativa (funzione tipica del controllo di gestione aziendale) assieme ad una verifica dei risultati ottenuti dal personale apicale (attività prodromica per l’ erogazione dei premi incentivanti) previsti dai contratti di lavoro e ad una analisi sul raggiungimento dei programmi indicati nel bilancio di previsione (indagine utile per monitorare l’ attuazione dei programmi politici). Inoltre si è constatato che in diversi enti a capo del nucleo di valutazione, ove istituito, erano stati posti il segretario dell’ ente o il direttore generale, senza prevedere per questi soggetti un controllo. Comunque i risultati ottenuti con un tipo di controllo possono essere utilizzati anche da un’ altra struttura, in quanto le varie forme di controllo, per essere efficaci ed efficienti, devono essere esercitate in modo integrato.

Il d.lgs n. 286 ha voluto fare chiarezza su quella  formulazione complessa che veniva usata dall’ art. 20 del d.lgs n. 29 (servizio di controllo interno o nucleo di valutazione) che aveva permesso inizialmente una latitanza  dei controlli di valutazione sull’ operato dei dirigenti o dei responsabili dei servizi incaricati di funzioni dirigenziali. Nella prassi successivamente instauratasi in alcuni casi sono stati preposti alla valutazione del personale dei nuclei di valutazione, formati anche da esperti nominati dalla giunta e scelti fra soggetti non direttamente coinvolti nella gestione dell’ ente (art. 20 comma 4° del d.lgs n. 29 e art. 33 del contratto di lavoro 1995/98), che operativamente vengono supportati dal servizio di controllo interno appositamente individuato all’ interno di ciascun ente (art. 20 comma 3° e 7° del d.lgs n. 29); in altri casi la valutazione del personale è stata attribuita al segretario o al direttore, senza però prevedere alcun controllo sull’ operato di questo dirigente.   Si deve ricordare che il termine dirigente, utilizzato genericamente dalla legge n. 142, ha avuto nel tempo una evoluzione normativa tale da identificarlo nei piccoli comuni nel dipendente preposto ad una unità organizzativa autonoma. Il d.lgs n. 286 all’ art 5 prevede che la valutazione dei dirigenti (o del personale apicale con incarico dirigenziale) va effettuata dal dirigente generale dell’ ente, su proposta dei responsabili dei vari servizi: si ritiene opportuno che negli enti locali, che si devono attenere ai principi del d.lgs n. 286 e non alle sue formulazioni letterali,  la valutazione dei dirigenti vada effettuata da un apposito organo collegiale, che formulerà una valutazione anche sull’ operato dei dirigenti, del segretario generale e del direttore generale.

La dicotomia che si era creata con la riformulazione dell’ art. 20 del d.lgs n. 29 da parte del d.lgs n. 470 non era sfuggita al legislatore, che già con la legge 24 dicembre 1993 n. 537 all’ art. 1 comma secondo, punto l) aveva delegato il governo a riformare nelle pubbliche amministrazioni la materia dei controlli interni, le verifiche dei risultati e dell’ organizzazione; questa delega, non essendo stata esercitata nei termini previsti, è stata riproposta appena dalla legge n. 59, sulla base della quale è stato emanato il d.lgs n. 286: questo decreto prevede dei controlli distinti per materia e la separazione fra le varie strutture che esercitano  i controlli interni. Si fa presente che se esiste una diversità di funzioni fra le diverse strutture di controllo, è opportuno che esista una distinzione anche fra i componenti delle stesse. Comunque i risultati ottenuti con un tipo di controllo possono essere utilizzati anche da un’ altra struttura, in quanto le varie forme di controllo, per essere efficaci ed efficienti, devono essere esercitate in modo integrato.

Il d.lgs n. 286 ha voluto fare chiarezza a quella  formulazione complessa che veniva usata dall’ art. 20 del d.lgs n. 29 (servizio di controllo interno o nucleo di valutazione) che aveva permesso inizialmente una latitanza  dei controlli di valutazione sull’ operato dei dirigenti o dei responsabili dei servizi incaricati di funzioni dirigenziali. Nella prassi successivamente instauratasi in alcuni casi sono stati preposti alla valutazione del personale dei nuclei di valutazione, formati anche da esperti nominati dalla giunta e scelti fra soggetti non direttamente coinvolti nella gestione dell’ ente (art. 20 comma 4° del d.lgs n. 29 e art. 33 del contratto di lavoro 1995/98), che operativamente vengono supportati dal servizio di controllo interno appositamente individuato all’ interno di ciascun ente (art. 20 comma 3° e 7° del d.lgs n. 29); in altri casi la valutazione del personale è stata attribuita al segretario o al direttore, senza però prevedere alcun controllo sull’ operato di questo dirigente.   Si deve ricordare che il termine dirigente, utilizzato genericamente dalla legge n. 142, ha avuto nel tempo una evoluzione normativa tale da identificarlo nei piccoli comuni nel dipendente preposto ad una unità organizzativa autonoma. Il d.lgs n. 286 all’ art 5 prevede che la valutazione dei dirigenti (o del personale apicale con incarico dirigenziale) va effettuata dal dirigente generale dell’ ente , su proposta dei responsabili dei vari servizi: si ritiene opportuno che negli enti locali, che si devono attenere ai principi del d.lgs n. 286 e non alle sue formulazioni letterali,  la valutazione dei dirigenti vada effettuata da un apposito organo collegiale, che formulerà una valutazione anche sull’ operato dei dirigenti, del segretario generale e del direttore generale.

 

 

6. La valutazione ed il controllo strategico

La funzione di amministrazione attiva propria della giunta dell’ ente locale può identificarsi con quella dell’organo di valutazione e controllo strategico previsto dal d.lgs n. 286, funzione questa che va intesa come attivita di supporto alla programmazione strategica ( in qualche modo è una forma di consulenza interna che valuta la corrispondenza tra obiettivi stabiliti e risultati conseguiti). Il testo unico delle autonomie locali all’art. 147 sancisce l’obbligatorietà per gli enti locali di attiavare le quattro tipologie di valutazione e controllo che il d.lgs n. 286/99 prevedeva come derogabili da parte di questi enti: conseguentemente ogni ente ora dovrà dar corso allo svolgimento della valutazione e del controllo strategico  della loro attività. Questo nuovo tipo di controllo mira alla verifica dell’effettiva attuazione delle scelte e delle direttive contenute negli atti di indirizzo politico. Questa tipologia di controllo si identifica in una valutazione dell’ attività amministrativa e dei suoi risultati per assicurare il perseguimento degli obiettivi politici nel corso del mandato, tenendo conto degli scostamenti che gli stessi devono subire nel corso della loro fase attuativa, senza quindi interferire né con l’attività del controllo di gestione né con quella della valutazione del personale. Questa nuova funzione di controllo implica l’ inserimento di logiche e di strumenti di pianificazione di medio e lungo periodo che si contrappongono ai tradizionali sistemi di programmazione confinati ad aspetti di valutazione sostanzialmente finanziaria-autorizzatoria ed in funzione di politiche di investimenti annuali. La pianificazione strategica presuppone la messa a fuoco di una visione evolutiva delle prospettive dell’ ente, mettendo in risalto le opportunità offerte dal contesto di riferimento sia normativo che programmatorio, anche da parte di istituzioni di area più vasta. Tale processo è finalizzato a identificare gli indirizzi di medio e lungo periodo dell’ ente ed è un presupposto per la messa a punto dei piani annuali e triennali. Il controllo strategico operativamente ha una funzione diversa sia dal controllo di gestione che dalla funzione di indirizzo e controllo. Il controllo strategico si identifica in una attività che, rifacendosi ai programmi approvati, agli indirizzi operativi emanati ed ai risultati del controllo di gestione, mira a verificare l’ effettiva attuazione delle scelte operate analizzando la congruenza dei risultati ottenuti con le attività espletate, con le risorse impiegate (umane, finanziarie e strumentali), con gli ostacoli incontrati e con i correttivi ai quali si è ricorsi e principalmente con l’ effetto che l’ intervento ha registrato nel contesto sociale. L’attività di valutazione e controllo strategico utilizza i dati rilevati dal controllo di gestione ma è tesa a valutare, nella loro fase attuativa, l’ adeguatezza delle scelte compiute, mettendo a confronto 1a congruenza o gli scollamenti tra obiettivi predeterminati e risultati raggiunti. Lo scopo di questo tipo di controllo consiste nel verificare il prodotto aggiunto che si è originato con la gestione nonché la qualità dell’impatto che è stato provocato nel contesto sociale dal raggiungimento degli obiettivi prefissati, le modalità con cui gli stessi sono stati raggiunti o le ragioni per le quali sono stati raggiunti solo parzialmente o addirittura sono stati mancati.

L’attività del controllo strategico può così venire delineata:

a)      analisi preventiva e successiva della congruenza e/o degli scostamenti tra obiettivi fissati dalle norme, obiettivi operativi precedentemente scelti, nuove scelte operative effettuate e le risorse umane, finanziarie e strumentali assegnate;

b)      identificazioni di eventuali fattori ostativi;

c)      individuazione di eventuali responsabilità per la mancata o parziale attuazione degli obiettivi;

d)     ricerca ed indicazione dei possibili rimedi.

In questo ambito è innegabile quale ruolo rivestano la giunta o i suoi componenti in tutte le fasi del controllo strategico.

Questa attività può essere affidata dalla giunta anche ad un supporto esterno ad essa, con il compito di presentare asetticamente e professionalmente gli scostamenti dei risultati ottenuti rispetto i progetti approvati e di suggerire azioni alternative o modificative di quelle precedentemente approvate: naturalmente le valutazioni di merito su queste proposte competono all’ organo politico.  Date le implicazioni di merito insite in questa fattispecie di controllo, alla relativa documentazione non si applicano le disposizioni sull’ accesso ai documenti amministrativi, essendo una attività di supporto agli organi politici per l’ emanazione di atti di carattere generale.

Presupposto per lo svolgimento del controllo strategico è la relazione previsionale e programmatica che costituisce un allegato al bilancio di previsione: se tale relazione è compilata con scrupolo sulla base dello schema previsto dal d.lgs n. 326/98, dalla stessa devono emergere con chiarezza le caratteristiche dell’ente, le risorse  a disposizione e, tramite i programmi e i progetti, devono essere chiari gli obiettiviche l’ente intende perseguire.

Valuta l’adeguatezza delle scelte

se gli strumenti di programmazione sono in corrispondenza biunivoca

se lo stato di attuazione dei programmi è in linea con i  singoli progetti approvati

Verifica l’impotto dell’attività dell’ente

Mette a confronto il politico con il cittadino

Il destinatario delle valutazioni del servizio preposto al controllo strategico è la giunta dell’ente locale e per essa il sindaco o il presidente della provincia, in quanto il capo dell’amministrazione in primis deve garantire all’elettorato la realizzazione del programma elettorale.

 

 

§  4  La funzione degli organi burocratici

 

1. La funzione degli organi burocratici

Nell’esaminare le funzione degli organi politici è già emerso quale ruolo rivestono i dirigenti dell’ente locale: ai primi competono gli atti di indirizzo, mentre ai secondi spettano gli aii di gestione. Per esemèlificare questa distinzione si evidenzia che in materia di reclutamento di risorse umane l’atto di indirizzo consiste nella formulazione della dotazione organica  e nella pianificazione delle assunzioni, atti nei quali viene espressa una strtegia politica sul personale dell’ente; i provvedimenti conseguenti a questi atti sono una attuazione della strategia politica e ne deriva che per essi, quali le approvazioni dei bandi di concorso e la nomina delle commissioni giudicatrici, serve solo una discrezionalità gestionale e non politica. Fra gli organi politici e gli organi burocratici esistono diversi momenti di integrazione, pur avendo funzioni distinte: un esempio concreto di tali sinergie si individua nella funzione attribuita dalla legge ai responsabili dei servizi di esprimere un parere di regolarità tecnica su ogni proposta di atto deliberativo, che non sia un atto di indirizzo politico (art. 49 comma 1° del t.u.): questo parere, che non ha la connotazione di un provvedimento di controllo, non può prescindere dalle implicazioni di legittimità che sono insite in un parere tecnico, perché la regolarità tecnica equivale al rispetto delle regole che disciplinano astrattamente una materia; la formulazione di un parere si estrinseca in una dichiarazione di conoscenza, che può anche essere disattesa dall’ organo a cui viene prodotta e conseguentemente un parere non è autonomamente idoneo per attestare la regolarità di un atto. Nell’ ipotesi che l’ente non abbia i responsabili dei servizi, il parere va espresso dal segretario dell’ente, in relazione alle sue competenze. Si ritiene che sarebbe stato opportuno, per una maggior trasparenza, che il legislatore, nel normare il processo di formazione degli atti deliberativi, avesse inserito anche la figura del proponente la singola deliberazione, al fine di poter individuare, oltre che il funzionario che confeziona materialmente il singolo atto deliberativo, anche l’amministratore responsabile dello stesso: tale ipotesi comunque può essere fatta propria da ciascun ente nell’ambito della propria potestà regolamentare. La finalità di questi pareri è la verifica della procedibilità dei programmi e dei progetti approvati nel contesto del bilancio di previsione. Il d.lgs n. 267 non apporta innovazioni all’istituto del parere sulle proposte di deliberazioni, che nel corso di dieci anni di nuovo ordinamento ha subito una modificazione di sostanza con la legge n. 127, che ha abrogato la formulazione del parere di legittimità su ogni proposta di deliberazione da parte del segretario dell’ ente.

Questo parere di regolarità tecnica su ogni proposta di deliberazione e la funzione di consulenza verso tutti gli organi dell’ente attribuita al segretari atipicamente possono venire identificati nel controllo di regolarità amministrativa previsto dall’art. 147 punto a) del t.u. Si one deve rilevare che si è utilizzato l’avverbio “atipicamente” per qualificare come controllo queste funzioni dei dirigenti e del segretario, in quanto nell’anlisi storica l’attività di controllo amministrativo viene solitamente correlata in caso di suo esito negativo ad una sanzione di carattere abblativo, mentre nella fattispesce il legislatore ha previsto solo l’espressione di un parere interprocedimentale di conoscenza che può essere anche disatteso dall’oragano al quale è diretto

Il controllo di regolarità contabile previsto dal medesimo punto a) dell’art. 147 del t.u. viene garantito nell’ente dalla competenza di monitorare tutte le attività dell’ ente al fine di accertare che vengano salvaguardati gli equilibri del bilancio e dal parere di regolarità contabile che, su ogni proposta di deliberazione o di determinazioni che comportino una diminuzione di entrata a un aumento di spesa, attribuiti al respoinsabile dei servizi finanziari. Inoltre tale controllo viene esercitato anche dall’attività di natura contabile che esrcita l’organo di revisione (relazione sul rendiconto, pareri sulla proposta del bilancio di previsione e sulle sue variazioni, vigilanza sulla regolarità contabile della gestione, verifiche di cassa).

Si porrà ora la nostra attenzione agli organi burocratici a cui sono state attribuite dal nuovo ordinamento degli enti locali anche una funzione di rappresentanza esterna dell’ ente. Per prendere in esame le competenze di ciascun organo burocratico e per individuare le caratteristiche degli stessi, si deve porre  attenzione all’ intero testo normativo approvato con il d.lgs n. 267. Ma prima di porre la nostra attenzione agli organi burocratici che hanno rilevanza strategica nell’ente locale, è opportuno esaminare le forme di lavoro dipendente che ora possono essere instaurate. L’art. 92 del t.u., accanto alla tradizionale forma di lavoro a tempo indeterminato e da svolgere durante il normale orario di lavoro, prevede l’instaurazione di rapporti di lavoro a tempo determinato o parziale, nel rispetto della disciplina vigente in materia: la norma fa chiaramente riferimento ai principi contenuti nel dllgs n. 29 e nel decreto legislativo 25 febbraio 2000 n. 61 con cui si dà corso ad una direttiva della comunità europea sul lavoro a tempo parziale. Su questo tema precedentemente si era soffermato l’art. 1 della legge 23 dic. 1996 n. 662 al comma 56 e seguenti prevedendo in particolare che al personale che instaura un rapporto di lavoro a tempo parziale non si applicano le incompatibilità previste dal d.lgs n. 29 per lo svolgimento  di libere professioni. Il t.u. dà la facoltà ai dipendenti a tempo parziale di prestrare la loro attività anche presso altri enti, purchè autorizzati dall’amminstrazione di competenza e purchè l’incarico presso l’altro ente non concorra a superare l’orario di lavoro previsto dal contratto di lavoro. In merito al lavoro a tempo determinato, la norma fa esplicito richiamo ai comuni interessati da mutamenti demografici stagionali o a particolari manifestazioni anche a carattere periodico: nel disciplinare la materia con il regolamento si può inserire oltre al riferimento ai flussi turistici anche il riferimento ad altre circostanze quali la presenza di attività produttive insistenti sul territorio che necessitano di personale stagionale o di trasfertisti. Al di fuori della normativa sulle assunzioni straordinarie, sempre in materia di lavoro temporaneo si deve ricordare la possibilità di ricorrere al lavoro interinale regolato dalla legge 24 giugno 1997 n. 196. Un altro apetto da considerare in materia di personale è la valorizzazione delle risorse umane mediante adeguati interventi formativi, nella prospettiva di migliorare gli elementi di qualificazione professionale e di garantire ai cittadini risposte efficenti. La formazione dei dipendenti assume rilevanza strategica anche in relazione alle iniziative di riforma del settore pubblico avviate dalla legge n. 421 e rielaborate dalla legge n. 59, poi sfocciate nella riforma della parte seconda, titolo V, della Costituzione ed ora ripresi dagi artt.       della legge 2001. Per gestire la formazione l’amministrazione non può prescinder da un’attenta verifica del fabbisogno formativo: mediante una consultazione di tutti i responsabili di servizio devono essere enucleati tutti gli elementi utili alla definizione delle esigenze sia a carattere generale (aggiornamenti sulle innovazioni normative, ecc.) sia a carattere specifico (corsi di formazione pratica).

2. Il segretario

Nella presa di coscienza della propria autonomia, da parte dei sindaci e dei presidenti della provincia era mal accettata la circostanza che la legge n. 142 lasciava inalterata la funzione di vertice burocratico dell’ ente al segretario, la cui nomina restava di competenza prefettizia, e rinviava ad una successiva legge la formulazione di un diverso ordinamento dei segretari comunali e provinciali. Uno degli aspetti più controversi derivava dal fatto che il sindaco o il presidente della provincia non aveva praticamente alcun potere, salvo alcune eccezioni nelle segreterie di prima classe, nella procedura della loro nomina, pur rivestendo il segretario un ruolo rilevante all’ interno dell’ ente locale.

Le varie proposte di un nuovo ordinamento dei segretari comunali e provinciali hanno trovato una ricollocazione nell’ art. 17 comma 67 e seguenti della legge 15 maggio 1997 n. 127 e nel successivo regolamento di attuazione approvato con il D.P.R. 4 dicembre 1997 n. 465. Questa norma ha confermato al segretario la connotazione di organo essenziale dell’ ente locale ma ha  previsto la sua dipendenza giuridica, per la gestione del loro rapporto di lavoro, da un’apposita Agenzia e non più dal Ministero dell’ Interno; compito di questa Agenzia è la gestione dell’albo a cui vengono iscritti i segretari e l’utilizzo degli stessi quando per qualsiasi causa sono privi della titolarità di una sede; al Ministero dell’Interno ora è demandato il compito di sovraintendere sull’operato dell’Agenzia. L’inquadramento funzionale dei segretari nei comuni e nelle province è rimasto quasi inalterato rispetto al passato, ma il loro rapporto di servizio con l’ ente locale è stato rinforzato in quanto è stata riconosciuta, in caso di vacanza del titolare della segreteria, al capo dell’amministrazione la competenza alla nomina di un nuovo segretario ee inoltre al neo eletto sindaco o presidente della provincia la facoltà di nominare un diverso segretario. La procedura di nomina del nuovo segretario ha sollevato delle perplessità in quanto la connotazione di fiduciarietà della nomina ha tolto al segratario il carisma di segretario di tutta la popolazione amministrata e quindi di figura sopra le parti: nell’attuale ordinamento non si può disconoscere un suo legame con la politica dell’amministrazione in carica, anche se manterrà la convinzione di essere al servizio della popolazione nei suoi bisogni essenziali e vitali. Al riguardo si fa rilevare che la nomina del segretario è un compito riservato al capo dell’amministrazione, il quale sull’argomento non è tenuto a sentire la giunta, come invece è previsto per la revoca; inoltre si è riscontrato che l’avviso di avvio della procedura per la scelta del nuovo segreatrio, in molti casi viene preceduta da parte del sindaco o del presidente della provincia con una informale ricerca del candidato segretario e che conseguentemente la procedura di selezione del candidato serve solo per legittimare la scelta preliminarmente fatta, senza curarsi di eventuali alte professionalità che possano presentarsi a seguito della pubblicazione del bando. Il d.lgs n. 267 nell’armonizzare la normativa sui segretari comunali, omettendo le parole “dirigente o funzionario pubblico” utilizzate nell’art. 17 comma 67 della legge n. 127, ha codificato la tipicità e l’unicità di questa figura all’interno dell’ente locale, che è posta alle dipendenze dell’agenzia e che instaura con l’ente un rapporto di servizio. Il legame del segretario con l’ente locale presso cui presta servizio è stato evdenziato dai successivi pronunciamenti dell’Agenzia, fra i quali merita particolare menzione la deliberazione n. 200/2001 con cui si definisce che l’autorizzazione al conferimento di inacrichi extra-istituzionali ai segretari comunali e provinciali spetta esclusivamente al sindaco o al presidente della provincia, da cui egli dipende funzionalmente.

Un altro aspetto controverso sulla figura del segretario dell’ ente discendeva dal fatto che la legge n. 142 gli attribuiva la formulazione del parere di legittimità su ogni proposta di deliberazione (funzione attribuita in un momento storico in cui era già testato che un atto può essere legittimo sotto l’aspetto amministrativo, ma al tempo stesso inefficiente ed inefficace sotto l’aspetto funzionale, se non addirittura illegale nel suo aspetto comportamentale). Inoltre la formulazione di questi pareri se non veniva esplicata informalmente, considerando la preesistenza del parere di regolarità tecnica (che già contiene delle implicazioni di legittimità sulla proposta di deliberazione) di fatto veniva a costituire un appesantimento dell’ attività dell’ente, considerando anche la molteplicità degli atti che all’epoca erano ancora di competenza degli organi deliberanti. Qualora un ente non abbia nella sua dotazione organica dipendenti con la qualifica di responsabili dei servizi, il segretario è tenuto, in relazione alle sue competenze, ad esprimere il parere di regolarità tecnica su ogni proposta di deliberazione. Inoltre le prime circolari emanate per una uniforme applicazione della legge n. 142 attribuivano nei comuni minori lo svolgimento delle funzioni dirigenziali al segretario dell’ ente,  in quanto unica figura presente all’interno dell’ ente con qualifica direttiva, nonostante che in detti enti fosse stata riconosciuta 1’esistenza dei responsabili dei servizi. L’attribuzione della formulazione di questi pareri da parte del segretario e dei responsabili di servizio sulle proposte di deliberazione rientra nell’ottica della diminuzione dei controlli esterni sugli atti dell’ ente; con queste norme viene rafforzata la figura del dipendente che è stato investito della funzione di presidiare i principi dell’ordinamento e di garantire la corretta applicazione della norma giuridica.

Il nuovo testo unico all’ art. 97 riprendendo al riguardo le indicazioni della legge n. 127 elenca le seguenti funzioni del segretario dell’ente locale:

a) compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico ‑ amministrativa nei confronti di tutti gli organi dell’ ente in ordine alla conformità dell’ azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti;

b) partecipazione con funzioni consultive, referenti e di assistenza alle riunioni del consiglio e della giunta e verbalizzazione delle stesse;

c) rogito di tutti i contratti nei quali 1′ ente è parte ed autentica delle scritture private e di atti unilaterali nell’ interesse dell’ ente;

e)      svolgimento di ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti dell’ ente nonché svolgimento di quelle funzioni attribuitegli con motu proprio dal sindaco.

La funzione di assistenza giuridico‑amministrativa nei confronti degli organi dell’ ente (da intendersi ivi comprese le figure apicali dell’ ente), in ordine alla conformità dell’ azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti, attribuita a1 segretario dell’ ente locale ha la medesima valenza di una verifica della legittimità dell’ attività dell’ ente ed è in linea con la necessità di avere all’ interno dell’ ente una figura che attesti la regolarità dell’ azione amministrativa, essendo praticamente venuti meno i controlli esterni di legittimità. Rispetto al precedente ordinamento al segretario viene riconosciuta già dalla legge n. 142 una posizione attiva all’interno degli organi dell’ente in quato gli è stata riconosciuta una funzione partecipativa che una presenza più forte della precedente funzione di assistenza agli organi. Le funzioni rogatorie del segretario sono state notevolmente ampliate dalla legge n. 127 rispetto il precedente ordinamento, riconoscendogli ampie funzioni notarili all’interno dell’ente, dando così la possibilità ai privati di avere a disposizione un ufficiale rogante nei loro rapporti con l’ente.

Se il sindaco o il presidente della provinci non abbia provveduto a nominare il direttore dell’ente, egli può conferire al segretario le funzioni di direttore generale. Qualora il capo dell’amministrazione non abbia provveduto alla nomina del direttore generale e non abbia conferito al segretario tale compito, al segretario spetta il compito di sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti (o dei dipendenti con funzioni dirigenziali), e di coordinarne l’ attività: si tratta di un compito qualificato  di alterità che viene affidato dalla legge al segretario, anche se tramite un comportamento omissivo del capo dell’ amministrazione: la funzione di cooordinamento ha una incidenza di maggior spessore professionale rispetto la supremazia gerarchica prevista dal precedente ordinamento. Nel caso che venga nominato il direttore generale ricorrendo ad una figura esterna all’ente, i rapporti fra segretario e direttore saranno regolati da apposita convenzione. Il segretario ha comunque un ruolo di raccordo fra organo politico e struttura amministrativa trasformando gli indirizzi politici in direttive di lavoro, ma nei confronti dei dirigenti non ha più una funzione di supremazia gerarchica bensì un rapporto di direzione funzionale, salvo il caso di accertata inerzia del dirigente: sono infatti i dirigenti i responsabili del raggiungimento degli obiettivi politici, qualora il segretario non sia nominato direttore. Nella nuova articolazione delle responsabilità all’interno dell’ente  il segretario deve dare un rapporto fattivo proponendosi come punto di riferimento dei nuovi centri di responsabilità: egli deve recepire il processo di rinnovazione della pubblica amministrazione ed attenersi nella sua attività non solo ad un modello strettamente conforme alla legge, ma ad un comportamento che, nel rispetto dei principi di legittimità, faciliti il risultato dell’azione amministrativa  ed il raggiungimento degli obiettivi politici utilizzando al meglio le risorse dell’ente con criteri di efficacia, efficenza ed economicità.

Quelle funzioni che il segretario svolgeva in virtù di norme particolari emanate anteriormente alla legge n. 127, qualora non in contrasto con i principi della legge Bassanini, sono da considerarsi confermate.

Da quanto sopra esposto risulta chiaro che il segretario dell’ente locale, avendo una funzione trasversale all’interno dell’ente, ora è una figura professionale che deve essere dotata di competenze giuridiche, direzionali ed economiche. Si eccepisce che l’entrata del nuovo ordinamento dei segretari comunali e provinciali doveva prevedere la possibilità di un loro aggiornamento culturale in chiave manageriale e non permettere agli amministratori un epuramento dei segretari non graditi.

 

3. Il direttore generale

La distinzione fra le competenze degli organi di indirizzo politico e quelle degli organi gestionali prima e l’elezione diretta del sindaco e del presidente della provincia poi hanno contribuito ad instaurare criteri di misurazione dell’ attività amministrativa, facendo riferimento,oltre all’economicità e all’efficienza dell’azione amministrativa. Conseguentemente il legislatore con la legge n. 127 ha individuato un nuovo organo burocratico che fosse di supporto all’ attività di indirizzo e controllo, a cui è affidato anche il compito di raggiungere gli obiettivi programmati: questa legge ha previsto che nei comuni con oltre 15.000 abitanti e nelle provincie può essere nominato un direttore (ora art 108 del t.u.); il legislatore ha dato la possibilità anche ai piccoli comuni di dotarsi di un direttore generale prevedendo che le citate funzioni possono essere svolte in forma convenzionale fra più comuni, la cui popolazione assommata raggiunga i 15.000 abitanti. Le funzioni di direttore generale possono essere conferite dal sindaco o dal presidente della provincia al segretario dell’ ente, qualora non sia stato nominato il direttore o non siano state stipulate le citate convenzioni. Il direttore viene nominato dal sindaco o dal presidente della provincia al di fuori della dotazione organica, previa deliberazione della giunta, secondo i criteri stabiliti dal regolamento di organizzazione degli uffici e dei servizi. Il rapporto che il direttore instura con l’ente è a tempo determinato e comunque il suo incarico non può ecceder quello del mandato del capo dell’amministrazione; l’incarico può essere revocato dal sindaco o dal presidente della provincia, previa deliberazione della giunta. L’importanza che riveste questa figura lavorativa all’interno dell’ente viene evidenziata dalla circostanza che il direttoree generale deve essere una persona di fiducia di tutti gli amministratori, prevedendo la norma che sia la sua nomina che l’eventuale revoca da parte del capo dell’amministrazione devono essere precedute da una deliberazione della giunta.

Il direttore è la persona che risponde dei risultati dell’ attività dell’ ente, anche se il mancato raggiungimento di uno degli obiettivi prefissati è attribuibile ad altro funzionario. Egli ha una funzione di direzione strategica dei dirigenti, che restano titolari delle funzioni loro attribuite ma vengono da lui organizzati per il raggiungimento degli obiettivi fissati dagli organi politici. Le funzioni tipiche del direttore generale dell’ente locale sono le seguenti:

– attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo;

– predisporre il piano dettagliato degli obiettivi per effettuare il controllo di gestione;

– predisporre la proposta di piano esecutivo di gestione;

– sovrintendere alla gestione dell’ ente perseguendo livelli ottimali di efficacia ed efficienza;

– sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e coordinarne la loro attività.

Dall’elencazione di queste funzioni emerge che il direttore generale deve avere la capacità di tradurre con decisioni chiare gli indirizzi politici in piani operativi che garantiscano il raggiungimento dei risultati prevedendo tempi da rispettare e individuando precise responsabilità.

 

4. I dirigenti

In materia di personale la legge n. 142 è stata oggetto di critiche in quanto sembrava essere stata forgiata solo per i comuni di una certa dimensione perché, quando faceva riferimento al personale apicale dei comuni, poneva la sua attenzione solo ai dirigenti, senza fare alcun riferimento alla circostanza che nella maggioranza dei comuni non erano rinvenibili le figure dirigenziali. Infatti il quadro normativo allora vigente permetteva di annoverare fra il personale dipendente delle figure dirigenziale solo a pochi comuni: dopo ampie discussioni sulla portata della dizione “dirigente” utilizzata nel testo delle legge n. 142, con la legge n. 127 è stato introdotto il principio che, anche negli enti locali che non annoverano nella loro dotazione organica dei dirigenti, i rispettivi capi delle amministrazioni possono conferire le funzioni dirigenziali ai responsabili di uffici e servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale con l’ avvertenza che i dipendenti insigniti delle funzioni dirigenziali devono operare anche essi nell’ambito di indicazioni di massima date dagli organi di direzione politica (art. 109 comma secondo del t.u.). Queste critiche sono state definitivamente rimosse dall’ art. 13 della legge n. 265 che, superando i precedenti vincoli ancestrali sulle qualifiche attribuibili al personale (che male si coniugavano con i principi dell’ autonomia e del federalismo) ha previsto che gli enti locali determinano la propria dotazione organica, nonché 1′ organizzazione e la gestione del personale, con i soli limiti derivanti dalle proprie capacità di bilancio e dalle esigenze di esercizio delle funzioni, dei servizi e dei compiti loro attribuiti. Si deve puntualizzare che il dirigente deve essere una figura progettuale verso l’ amministrazione e inoltre deve agire nell’ ambito di un’ ampia e piena autonomia per il raggiungimento degli obiettivi stabiliti dall’ amministrazione. La riforma ha forgiato una figura del dirigente, o del dipendente incaricato di funzioni dirigenziali che opera con procedure flessibili, che viene responsabilizzato nel raggiungimento degli obiettivi e che viene retribuito anche in funzione dei risultati conseguiti.

Sulla costituzione dei rapporti di lavoro aventi valenza dirigenziale il t.u. all’art. 110 traspone le indicazioni dell’ art. 51 comma sesto e settimo della legge n. 142 nella parte in cui, secondo il regolamento sul personale e sui servizi, prevede rispettivamente il conferimento degli incarichi dirigenziali a tempo determinato con criteri di competenza professionale, sulla base degli obiettivi indicati dal capo dell’amministrazione nel programma amministrativo, e la costituzione con convenzioni a termine di collaborazioni esterne ad alto contenuto professionale e per obiettivi determinati. In merito alla costituzione del rapporto di lavoro dei dirigenti è stato acclarato che questi incarichi devono essere preceduti da una valutazione comparativa fra i potenziali interessati, procedura nella quale l’amministrazone agisce in posizione di supremazia nei confronti dei partecipanti alla selezione.

Ai dirigenti spettano tutti i compiti non ricompresi dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell’ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore dell’ente; in queste funzioni rientra l’adozione degli atti e dei provvedimenti  amministrativi che impegnano l’ente verso l’esterno.

Le funzioni dirigenziali vengono codificate dall’art. 107 del d.lgs n.267 e si possono così sintetizzare:

a) dirigere gli uffici ed i servizi loro affidati;

b) svolgere i compiti che impegnano l’ amministrazione verso l’ esterno, non attribuiti agli organi di governo;

c) svolgere i compiti necessari per attuare gli obiettivi ed i programmi definiti dagli organi politici;

e)      emanare i provvedimenti di aurorizzazione , concessione o analoghi;

f)       responsabilità diretta sul raggiungimento degli obiettivi dell’ ente, della correttezza amministrativa e dell’ efficienza della gestione.

In merito alle competenze dirigenziali  è da rilevare che la natura gestionale di un atto non può venir meno per il fatto che esso sia il risultato di una scelta discrezionale: la discrezionalità è attribuita agli organi governativi o a quelli amministrativi in relazione alla funzione che è esercitata con il singolo provvedimento; la fiduciarietà di una scelta va rimessa quindi anche all’organo amministrativo che in quanto tale si presume abbia la competenza professionale necessaria per compiere tale scelta.

In merito alla rappresentanza dell’ente locale in giudizio, si deve rilevare che l’attribuzione ai dirigenti del potere di rappresentanza in giudizio deve essere necessariamente definita con con disposizione statutaria prevedendo l’art. 6, comma 2°, del t.u. che lo statuto disciplina sia le attribuzioni degli organi che i modi di esercizio della rappresentanza legale, che in assenza di diverse indicazioni è attribuita al capo dell’amministrazione dall’art. 50, comma secondo.

L’art. 169 del t.u. prevede l’ affidamento degli obiettivi ai dirigenti, unitamente alle dotazioni necessarie per il loro raggiungimento, esplicitati  dalla giunta nel piano esecutivo di gestione. Al dirigente compete proporre alla giunta le modifiche al Peg che ritiene opportune, anche per esigenze sopravvenute, e l’organo esecutivo le accoglie o le respinge dando adeguata motivazione alla mancata accettazione della proposta (le modificazioni al Peg possono essere apportate fino al 15 dicembre di ciascun anno). Per quanto riguarda la responsabilità dei dirigenti sul raggiungimento degli obiettivi, gli stessi vanno distinti fra obiettivi imposti dall’ amministrazione ed obiettivi negoziati, intendendosi per tali quegli obiettivi che sono stati concordati dal dirigente con l’amministrazione.

Lo statuto può attribuire al capo dell’amministrazione la competenza ad annullare gli atti dei dirigenti o del personale al quale sono state conferite funzioni dirigenziali, che risultano essere illegittimi. Questa potestà attribuita al sindaco e al presidente della provincia, anche se autorità non gerarchicamente sovraordinata al dirigente, è in linea con il principio costituzionale del buon andamento della pubblica amministrazione e discende dal combinato disposto dell’ art. 14 del d.lgs n. 29 che prevede il potere ministeriale di annullamento degli atti illegittimi dei dirigenti, della arte. 1 del medesimo d.lgs n. 29 nella parte in cui sancisce che le sue disposizioni  disciplinano l’organizzazione degli uffici di tutte le pubbliche amministrazioni compresi gli enti locali, dell’art 50 comma 10 del d.lgs n. 267 che attribuisce al capo dell’amministrazione la nomina dei responsabili degli uffici e dei servizi e dell’art. 107 comma primo del d.lgs n. 267 che attribuisce agli organi di governo il potere di controllo politico amministrativo. Il regolamento sul funzionamento degli uffici e dei servizi dovrà prevedere le modalità di esercizio di tale potere; in merito si suggerisce di prevedere che tale potere venga attivato su conforme parere del segretario dell’ente, in quanto egli risponde della conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti: per tali finalità egli deve comunque essere messo in grado di conoscere l’attività che svolgono i dirigenti.

 

5. Il controllo di gestione

Nel contesto della maggior autonomia concessa agli enti locali e della contestuale limitazione dei controlli esterni sulla loro attività, dal legislatore è stata avvertita l’esigenza di garantire la corretta ed economica gestione delle risorse, l’imparzialità ed il buon andamento dell’amministrazione locale, nonché la trasparenza dell’azione amministrativa. Su questa falsariga il d.lgs n. al punto b) dell’ art. 147, primo comma, dispone che, nel contesto dei controlli interni che vanno 267 attivati negli enti locali, attraverso il controllo di gestione va verificata l’ efficacia, l’efficienza e l’economicità dell’azione amministrativa. Il d.lgs n. 77 aveva già previsto agli artt. 39,40 e 41 lo svolgimento del controllo di gestione, per cui molti comuni e province al momento nell’ entrata in vigore del nuovo testo unico avevano già  in corso forme di controllo di gestione: ora gli enti che non avevano ancora istituito il controllo di gestione, accalcando  l’alibi che loro veniva offerto dalla poca chiarezza dell’ art. 20 del d.lgs n. 29 (che aveva indotto diversi enti a confondere il servizio di controllo interno con il nucleo di valutazione), devono adeguarsi a questa forma di controllo della propria attività, in quanto il d.lgs n. 286 ha abrogato il citato art. 20.

Il controllo di gestione è un controllo interno mutuato dai criteri di gestione utilizzati nelle aziende private per verificare le modalità di raggiungimento degli obiettivi programmati e può essere definito come lo strumento necessario per conoscere lo svolgimento di un’attività. La sua introduzione negli enti pubblici si è resa opportuna dopo aver preso coscienza, a seguito degli eclatanti episodi di tangentopoli, che il controllo di legittimità non era sufficiente per garantire l’economicità, l’efficienza e l’efficacia dell’ azione amministrativa. Con il controllo di gestione si verifica: a) lo stato di attuazione degli obiettivi programmatici e il raggiungimento degli obiettivi prefissati, previa analisi delle risorse acquisite e del confronto tra costi e le quantità e la qualità dei servizi erogati; b) 1’operatività dell’ ente anche mediante tempestivi interventi di correzione; c) 1’efficacia, l’efficienza e l’economicità dell’ azione amministrativa al fine di ottimizzare le risorse impiegate. Il controllo di gestione è qunidi una costante analisi dell’attività amministrativa finalizzata al raggiungimento degli obiettivi. Si deve tenere presente che in una pubblica amministrazione il raggiungimento degli obiettivi non può essere misurato solo secondo le regole del mercato, in quanto nell’ erogazione dei servizi pubblici oltre il risultato economico si deve tenere in considerazione anche il beneficio che ne deriva alla comunità. Si puntualizza che il controllo di gestione può essere finalizzato su particolari obiettivi, anche se è opportuno che abbia per oggetto 1′ intera attività dell’ ente, ma che lo stesso va svolto comunque con continuità per verificare lo stato di attuazione dei singoli progetti (auditing) al fine di poter intervenire con provvedimenti correttivi in corso d’opera. Non si devono quindi confondere con il controllo di gestione quelle rilevazioni, seppur valide, che vengono effettuate su singoli settori di attività e con carattere saltuario, le quali hanno lo scopo di monitorare in un determinato momento una specifica attività dell’ ente. Il controllo di gestione vero e proprio è una attività di verifica dell’efficacia, dell’efficienza e dell’economicità dell’azione amministrativa. Purtroppo si registra ancora una scarsa convinzione di amministrattori e dirigenti nell’azione di implementazione del controllo di gestione  come attività inserita a pieno titolo all’interno del processo di programmazione e di riorganizzazione dell’ente.Il controllo di gestione deve considerarsi uno strumento necessario sia agli amministratori, per  verificare lo stato di attuazione degli obiettivi programmati, sia ai dirigenti dei servizi, per valutare l’andamento della gestione. La materia originariamente è stata disciplinata dal d.lgs n. 77 che ha  individuato, con notevole chiarezza, in cosa consiste il controllo di gestione, puntualizzando quali sono gli strumenti contabili da utilizzare, le sequenze delle operazioni che lo connotano ed i riferimenti organizzativi di supporto (norme ora trasfuse negli artt.193 e seguenti del t.u.). Un modello del controllo di gestione non può essere standardizzato in quanto è peculiare di ogni singola realtà e va costruito e modellato caso per caso, utilizzando principi e metodologie di carattere generale senza però ripetere schemi e modelli teorici. Lo strumento di base per 1′ attuazione di questo tipo di controllo è il piano esecutivo di gestione, con cui si assegnano ai funzionari le risorse umane e finanziarie necessarie per il raggiungimento degli obiettivi che vengono a loro assegnati. Per lo svolgimento di questo controllo all’ interno dell’ ente va individuato un soggetto (controller) a cui vanno indirizzati i referti (reports) sullo stato di attuazione dei singoli progetti per coordinare armonicamente l’ attività complessiva dell’ ente. Ciascun dirigente dopo che gli sono stati assegnati gli obiettivi da raggiungere dovrà fare una proiezione dei tempi necessari per l’attuazione di detti obiettivi in base allle risorse umne che ha a disposizione; assegnerà quindi alle singole unità lavorative l’esecuzione materiale dei compiti, prefissando di concerto con esse i tempi entro i quali gli stessi dovranno essere ultimati. A sua volta ciascuna unità lavorativa verificherà con scadenza giornaliera il tempo impiegato per l’esecuzione dei progetti, che ha il compito di materializzare,  presentando al suo dirigente l’analisi dei lavori svolti setttimanalmente: il dirigente o l’unità operativa preposta avrà a disposizione in tempi reali lo stato di avanzamento di quanto si intende realizzare, avendo così la possibilità di apportare gli eventuali correttivi in corso d’opera

Il soggetto preposto all’ esame dei risultati del controllo di gestione si individua nel segretario oppure, ove nominato, nel direttore generale, ma con diversi livelli di responsabilità: infatti al segretario compete solo il coordinamento dell’ attività dei dirigenti, che sono personalmente responsabili del raggiungimento dei risultati loro affidati, mentre il direttore generale è responsabile in solido con i dirigenti nel raggiungimento dei risultati. Alcuni modelli di controllo di gestione   inizialmente prevedevano anche 1’effettuazione delle verifiche che sono proprie sia della valutazione del personale che del controllo strategico: noi riteniamo che, dati i fini teleologici diversi di ogni tipo di controllo, sia più giusto prevedere che i dati che vengono raccolti con il controllo di gestione vengano separatamente utilizzati dal singolo dirigente, dall’ organo che esercita la valutazione del personale e dall’ organo che esercita il controllo strategico.

E’ doveroso evidenziare che nelle altre pubbliche amministrazioni il controllo di gestione è stato previsto obbligatoriamente appena nel 1999 con il d.lgs n. 286. Per esercitare il controllo di gestione gli enti locali minori, data la difficoltà di creare degli autonomi servizi, possono dar vita fra di loro ad uffici unici con processi di aggregazione utilizzando lo strumento delle convenzioni.

 

6. La valutazione del personale

L’ adeguamento degli atti normativi degli enti locali dopo l’ emanazione del nuovo testo unico approvato con d.lgs n. 267 può essere l’occasione per rivisitare il sistema di valutazione del personale dipendente. L’art. 147 di questo decreto infatti nel recepire negli enti locali le disposizioni del d.lgs n. 286 (che ha dettato disposizioni in materia di controllo interno nelle pubbliche amministrazioni), rimette in evidenza le implicazioni che erano discese dall’abrogazione da parte di questo decreto dell’ art. 20 del d.lgs n.29, che dettava norme sulla valutazione dei dirigenti negli enti locali. Preliminarmente all’ esame delle modalità di valutazione del personale, si deve tenere a mente che le componenti della retribuzione del personale si distinguono in retribuzione tabellare, retribuzione di posizione e retribuzione di risultato. La retribuzione tabellare viene fissata dal contratto collettivo di lavoro per ciascuna fascia retributiva; la retribuzione di posizione viene individuata da ciascuna amministrazione in base al proprio organigramma entro la forbice retributiva stabilita dal contratto collettivo; la retribuzione di risultato viene fissata da ciascun ente per ogni singolo dipendente che ne abbia diritto in base al raggiungimento degli obiettivi che sono stati assegnati ai dirigenti.

Per posizione si intende la rilevanza che riveste all’interno dell’ente la singola unità lavorativa con poteri di coordinamento di alcuni servizi, che conseguentemente può assumere un ruolo più o meno strategico nell’organizzazione aziendale. Per determinare il valore delle singole posizioni si deve analizzare che lavoro svolge ogni posizione che si intende valutare e stabilire a priori dei parametri oggettivi (quindi indipendentemente dalla persona che occupa quella posizione) per valutare la strategicità della stessa all’interno dell’ente ed anche per verificare l’opportunità di differenziare le singole posizioni. La valutazione in questione serve per attribuire l’indennità di posizione ai dirigenti o agli incaricati di funzioni dirigenziali, che hanno un indice di strategicità rilevante all’interno dell’ ente, essendo le figure trainanti l’attività dell’ente.La pesatura delle singole posizioni (punteggio attribuibile a ciascuna posizione) può essere effettuata sulla base dei seguenti criteri:

a)      collocazione nella struttura;

b)      composizione dei servizi coordinati;

c)      responsabilità gestionale, che può essere considerata anche sotto l’ aspetto della responsabilità all’interno e all’ esterno dell’ ente.

Fissando un indice di 100 punti da suddividere per ogni criterio con cui si intende valutare la rilevanza delle singole posizioni, si procede quindi a suddividere il punteggio massimo assegnabile per ciascun criterio. Si suggerisce al riguardo la seguente suddivisione:

CRITERI

        PUNTI

Collocazione nella struttura

             30

Composizione dei servizi

             30

Responsabilità

gestionale

Interna

             20

Esterna

             20

Stabilite le pesature massime da attribuire a ciascun criterio di valutazione, si  deve porre l’attenzione all’operazione di sintonizzazione, che consiste nella attribuzione del punteggio a ciascuna posizione organizzativa in base ai servizi coordinati (si impotizza un ente suddiviso in tre settori). Il quadro di sintonizzazione delle figure dirigenziali e delle posizioni organizzative risulta il seguente, indicando i servizi che hanno una rilevanza esterna per l’ente locale:

 

              S e t t o r e            Servizi Collocazione Composizione Responsabilità
 

 

Amministrativo

Contabile

 

 

Segreteria      

 

 
Demografici        
Ragioneria        
Personale        
Tributi        
                     Tot.        
 

 

Servizi alla

Persona

 

 

Istruzione        
Cultura e sport        
Servizi sociali        
Strutture ricettive        
                     Tot.        
 

 

Tecnico

Manutentivo

 

 

Lavori pubblici        
Urbanistica ed edilizia        
Servizi tecnici        
Ambiente        
Vigilanza        
                     Tot.        
           

Dopo aver effettuato la sintonizzazione di ciascuna unità organizzativa, si può riepilogare sinteticamente l’attribuzione del punteggio assegnato sia alle posizioni individuate all’interno dell’ente che ai dirigenti.

 

Assegnazione del punteggio alle singole posizioni organizzative o ai dirigenti

             SETTORE                         CRITERI PUNTI    Totale
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Collocazione nella struttura

   
 

Composizione dei servizi

 
 

Responsabilità

Gestionale

Interna  
Esterna

Il secondo elemento variabile della retribuzione del personale è la quota di retribuzione collegata alla valutazione dei risultati. La valutazione del personale per la parte della retribuzione di risultato viene effettuata dai dirigenti e dal nucleo di valutazione per il personale con funzioni dirigenziali. L’ammontare della retribuzione di risultato è determinata per il personale dal contratto collettivo di lavoro che prevede l’istituzione di un fondo complessivo di sallario accessorio, alla cui determinazione l’ammministrazione può intervenire solo con eventuali incrementi monetari. La ripartizione del fondo è riservata alla contrattazione decentrata, alla quale partecipano i dirigenti e non necessariamente gli amministratori. In sede di contrattazione viene stabilito il sistema di valutazione, utilizzando anche i dati emersi dal controllo di gestione. Si fa presente che se i dirigenti sono i responsabili dei risultati della gestione ( art. 89 sesto comma del t.u.), ne consegue che è una loro competenza anche la valutazione del personale.

Il nucleo di valutazione ha il compito di valutare una volta all’anno

Per effettuare questa analisi si deve predisporre un sistema di valutazione dei risultati che sia semplice chiaro ed efficace; inoltre è opportuno che questo sistema sia unico per tutti i dipendenti dell’ente, compresi anche i dirigenti. Il sistema che si realizza deve essere facilmente capito dagli amministratori, dai dipendenti e dalle organizzazioni sindacali per essere poi oggetto di contrattazione aziendale. Si ipotizza che ogni fascia di lavoratore vada comparata con  sei fattori  di valutazione, che vanno predeterminati dall’amministrazione. Il primo fattore di valutazione può essere individuato nei risultati di attuazione del piano esecutivo di gestione  nei  quali vengono maggiormente coinvolti i dipendenti appartenenti alle fasce più qualificate: il Peg è attribuito agli apicali, ma i risultati vanno raggiunti tramite i servizi svolti da tutto il personale e per rendere motivati i dipendenti deve  essere condiviso dagli stessi il raggiungimento dei risultati. Il secondo fattore di valutazione può essere localizzato nell’esperienza espressa nell’attività lavorativa: dato il suo aspetto di praticità nell’esecuzione del lavoro e non di organizzazione del lavoro, questo fattore di valutazione non interessa le figure lavorative più qualificate ma è indispensabile per le altre. Il terzo fattore di valutazione può essere fissato nel comportamento professionale, nell’orientamento ai risultati e nella disponibilità alla sostituzione  dei colleghi: anche questo è un fattore di valutazione che va ad interessare solo i lavoratori inseriti nelle fasce più basse. Il quarto fattore di valutazione interessa invece solo i lavoratori inseriti nelle fasce più alte, in quanto prende in considerazione la capacità di organizzare le risorse, che è richiesta solo in alcune fasce. Il quinto fattore di valutazione interessa tutti i lavoratori, ma maggiormente quelli che hanno compiti organizzativi più importanti in quanto lo stesso analizza la capacità di innovazione, di creatività e di risoluzione dei problemi di ciascun lavoratore. Il sesto fattore della valutazione, che pone attenzione alla puntualità e precisione nello svolgimento della prestazione, interessa invece maggiormente i lavoratori che hanno compiti di materiale esecuzione dei lavori.

Naturalmente l’attribuzione dei punteggi per ciascuna fascia e per ciascun fattore va effettuata sulla base delle strategie aziendali. L’attribuzione di questi punteggi viene proposta dal nucleo di valutazione al sindaco, il quale decide in merito con la collaborazione della giunta. Il sistema di valutazione, così impostato viene discusso congiuntamente fra il Sindaco, il nucleo di valutazione e la conferenza dei responsabili di settore: la bozza di valutazione con gli eventuali aggiustamenti viene successivamente presentata a tutto il personale dell’ente.

La proposta di sistema di valutazione  va quindi definita nella delegazione trattante e, dopo la stipula della contrattazione decentrata, va approvata dalla Giunta ed applicata dai dirigenti con la collaborazione del nucleo di valutazione.

 

Tabella dei criteri di valutazione

                               Fasce  retributive
 Fattori di valutazione A B C D D po Dir
 Risultati di Peg + + d+ d+ d+
 Esperienze nel lavoro Æ Æ
 Orientamento ai risultati e disponibilità alle sostituzioni + + d  – Æ Æ
Capacità di organizzare le risorse Æ d- + +
Creatività e capacità di risolvere i problemi + d-   d+ Æ
 Puntualità e precisione d+ + Æ
                                                                 Tot. 100 100 100 100 100 100

+      valore alto

–      valore basso

Æ     valore non attribuito perché valore presupposto

d-    valore più basso

d+    valore più alto

 

 

Tabella delle valutazioni di risultato massime attribuibili a ciascuna unità lavorativa,  suddivise per fascie retributive e per fattori di valutazione:

                              Fasce retributive
                Fattori di valutazione A B C D D  po Dir
 Risultati di Peg 35 40 40 50 60 60
 Esperienza nel lavoro 10 10 10 10 Æ Æ
 Orientamento ai risultati e disponibilità alle      sostituzioni 15 15 10 6 Æ Æ
 Capacità di organizzare le risorse Æ 4 10 10 20 20
 Creatività e capacità di risolvere i problemi 15 11 18 14 20 20
 Puntualità e precisione 25 20 12 10 10 Æ
                                                                Tot. 100 100 100 100 100 100

 

D po     fascia D con posizione organizzativa

Dir        dirigenza

 

§   5  Il processo di aziendalizzazione

 

1. Il rafforzamento degli organi

L’autonomia degli Enti Locali, esplicandosi nella capacità di darsi delle regole consone alla propria realtà socio-economica, implica l’esistenza di organi che siano i protagonisti delle decisioni prese dall’ente e non dei soggetti a responsabilità limitata. Su questa falsariga il nuovo ordinamento degli enti locali ha forgiato dei rappresentanti  dell’ente locale che hanno una capacità di  agire che non si riscontrava nella precedente legislazione. Con la loro investitura diretta da parte dei cittadini e con l’attribuzione  ad essi del potere di nomina della giunta e dei collaboratori più qualificati il Sindaco e il Presidente della Provincia sono divenuti una figura  centrale nella conduzione dell’ente: il capo dell’amministrazione ora è investito di un carisma di presidente dell’azienda locale con propri poteri di indirizzo. La funzione della giunta,  sfrondata dei compiti amministrativi che nel precedente ordinamento riducevano altamente la sua  connotazione di organo politico, ora ha una funzione  analoga al consiglio di amministrazione di una società di capitali. Al consiglio dell’ente è stata attribuita la funzione di organo di indirizzo e controllo dell’attività  dell’ente locale, con poteri di  incidere sul programma di mandato.

Al Segretario dell’ente è stato affidato il compito di consulente degli organi  dell’ente in ordine alla regolarità amministrativa ed una effettiva funzione notarile nell’interesse dell’ente. Inoltre, con provvedimento del capo dell’amministrazione, gli può essere attribuita la funzione di direttore dell’ente, con un conseguente coinvolgimento diretto nel raggiungimento degli obiettivi strategici fissati dagli organi politici. Ai dirigenti è stata attribuita un’autonomia funzionale nel raggiungimento degli obiettivi aziendali e la rappresentanza esterna dell’ente nelle materie di loro competenza. Per il raggiungimento dei propri obiettivi il capo dell’amministrazione, su conforme deliberazione della giunta, può nominare al di fuori della dotazione organica un direttore a cui sono affidati i compiti di un amministratore delegato. La strutturazione dell’organico dell’ente non necessita più delle autorizzazioni ministeriali, ma ha il solo limite del reperimento delle occorrenti risorse finanziarie, e va rivisitata  in modo da creare nel mercato del lavoro un valore esterno alle singole posizioni lavorative che  sia diverso dalla garanzia nel tempo dell’impiego fisso.

Nell’ottica della trasformazione dell’ente locale in chiave aziendalistica, una delle innovazioni di rilievo del nuovo ordinamento è stata la diversa composizione dell’organo di revisione. L’organo di revisione previsto dalla precedente normativa risultava inadeguato, anche in relazione alla maggior partecipazione dell’ente locale alle qualità della vita della “città”, sia per la limitata competenza che gli veniva attribuita dalla legge (i revisori potevano svolgere il loro compito ispettivo solo nei confronti del conto presentato dal tesoriere e sui documenti ad esso allegati), che per la temporaneità della loro funzione (i revisori venivano nominati annualmente, per cui potevano essere non confermati nel corso della legislatura) nonché per la loro scelta all’ interno del consiglio comunale (i revisori venivano nominati fra i consiglieri comunali, senza che fosse loro richiesta una particolare professionalità in materia). Il nuovo organo di revisione, inizialmente regolato dall’art.57 della legge n. 142, è composto da tre professionisti scelti uno tra gli iscritti nel ruolo dei revisori contabili (che funge da presidente), uno tra gli iscritti nell’albo dei dottori commercialisti ed uno tra gli iscritti nel collegio dei ragionieri; nei comuni aventi una popolazione inferiore a 5.000 abitanti la funzione dell’organo di revisione è affidata ad un solo revisore, scelto tra i professionisti iscritti in albi, che sono ordinariamente chiamati a verificare la gestione di aziende private, ha lo scopo di trasferire negli enti locali i principi di gestione aziendale utilizzati nel settore privato: in base a questa falsariga i revisori avranno un ruolo non secondario quando 1’ente locale dovrà decidere quale sistema di contabilità economica adottare (art. 232 del t.u.), accanto alle tradizionali rilevazioni finanziarie. I revisori vengono eletti dai consigli comunali e provinciali con voto limitato a due componenti in modo da permettere alla minoranza di esprimere un professionista di sua fiducia. Le loro funzioni sono estese a tutta l’attività finanziaria e contabile della ente, con l’obbligo di riferire al consiglio le eventuali irregolarità riscontrate, anche se la loro relazione sul rendiconto resta il documento più rilevante della loro attività e nel quale essi esprimono rilievi e proposte tese a conseguire una migliore gestione. L’organo di revisione deve formulare un parere-giudizio sulla attendibilità, congruità e coerenza del bilancio preventivo; inoltre deve verificare e valutare la corretta applicazione normativa connessa al patto di stabilità, anche se questo compito sarà meno gravoso nei comuni con meno di 5.000 abitanti; con la legge 2001 n. all’art 12 è stato previsto che irevisori acertno che i documenti di programmazione del fabbisogno di personale siano improntati al rispetto del principio di riduzione complessiva della spesa introdotto dalla legge 27 dicembre 1997 n. 449. I revisori effettuano verifiche trimestrali sulla situazione di cassa e sulla gestione contabile e contrattuale dell’ente, nonchè prestano una particolare collaborazione con gli organi dell’ ente formulando dei pareri sia sulla proposta di bilancio di previsione che sulle sue successive variazioni. L’organo di revisione esercita un’attività di vigilanza sulla regolarità contabile e finanziaria dell’intera gestione dell’ente, con il compito di riferire al consiglio dell’ente le eventuali irregolarità che riscontra. Il revisore dovrà agire monitorando l’intera attività dell’ente, individuando i punti critici della gestione e proponendo soluzioni alternative a quelle adottate, qualora queste siano inadatte per il raggiungimento degli obiettivi strategici: questa funzione propositiva si qualificherà in particolare quando il revisore darà il suo apporto collaborativo al consiglio dell’ente nel momento delle scelte strategiche.

Questa assimilazione dell’organizzazione dell’ente locale a quella  di un’azienda economica non deve essere solo una  nuova tecnica di gestione, ma deve essere l’esternalizzazione di un nuovo tipo di cultura nella gestione dell’ente locale.

 

2. L’ autonomia finanziaria

La legge n. 142 per rendere l’autonomia una reale capacità di autogestirsi ha riconosciuto a comuni e province anche un’autonomia finanziaria nell’ambito del coordinamento della finanza pubblica. Questo principio è stato enunciato in un momento storico in cui la finanza locale era fortemente connotata da un sistema di risorse trasferite, frutto della riforma tributaria del 1970 che aveva accentrato tutto il prelievo tributario nelle mani dello Stato. I criteri che allora governavano la finanza locale deresponsabilizzavano gli amministratori: infatti, il prelievo tributario dell’ente locale verso i suoi cittadini era molto limitato, mentre la gran  parte delle  risorse finanziarie  proveniva all’ente da  trasferimenti statali; conseguentemente gli amministratori locali attuavano le loro iniziative senza dover rispondere direttamente ai cittadini sull’ uso delle risorse che venivano loro assegnate dal Governo statale. La concretizzazione di una effettiva potestà tributaria ha avuto un decorso quasi decennale poiché il legislatore ha proceduto ad una sua progressiva applicazione, avendo tenuto conto anche della circostanza che, al momento dell’ entrata in vigore della riforma delle autonomie locali, i servizi tributari di comuni e province erano in sostanza sguarniti di personale. La revisione dell’ordinamento tributario locale, prevista come principio dall’ art. 54 della legge n. 142 e inclusa nelle finalità indicate dalla legge delega n. 421, è stata avviata dal decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 504, che in particolare disciplina l’imposta comunale sugli immobili e rivisita il sistema dei trasferimenti erariali agli enti locali; la successica legge 21 dicembre 1996 n. 662 integra e ammoderna il quadro dei tributi locali con le indicazioni dell’ art. 3, comma 143 assieme al successivo decreto legislativo di applicazione 15 dicembre 1997 n. 446. Per alcuni tributi che si sostanziano nel pagamento di una prestazione offerta dall’ente locale in regime di privativa (occupazione di aree pubbliche, raccolta-trasporto-smaltimento rifiuti) il legislatore ha previsto la possibilità della trasformazione della tassa in tariffa del servizio. In linea con il principio della separazione delle competenze, l’attuale sistema tributario degli enti locali ha previsto per ogni tributo la figura del funzionario responsabile del procedimento tributario. Sempre per meglio focalizzare le competenze di ciascun organo, il d.lgs n. 267 all’ art. 42, punto f) del comma 2°, ha attribuito alla giunta la competenza alla definizione ed all’adeguamento delle aliquote dei tributi, riservando al consiglio l’istituzione e l’ordinamento dei tributi e la disciplina generale delle tariffe per la fruizione dei beni e dei servizi.

Nel contesto della riforma del sistema tributario globale, la legge 27 luglio 2000 n. 212, che detta disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente, all’art. 1 quarto comma impone anche agli enti locali di adeguare i rispettivi statuti e gli atti regolamentari ai principi previsti da questa legge. Il contribuente da diversi anni ha assunto un ruolo centrale nell’applicazione delle norme tributarie provvedendo direttamente a dichiarare, liquidare e versare le imposte. In presenza del principio dell’autotassazione è sorta la  necessità di rendere le norme tributarie facilmente leggibili e l’azione amministrativa trasparente, efficace e imparziale. I capisaldi della legge n. 212 sono la non retroattività della legge tributaria, il divieto del ricorso al decreto legge per disporre l’istituzione di nuovi tributi, il rafforzamento del diritto di interpello e l’istituzione del garante del contribuente. Si ritiene che, negli spazi lasciati liberi all’autonomia degli enti locali, le funzioni di garante possano essere attribuite al difensore civico, evitando così al cittadino di dover ricorrere al  garante regionale.

L’autonomia finanziaria degli enti locali è stata presa in consoderazione dal nostro legislatore anche nel rivisitare il tirolo V della parte seconda della nostra Costituzione introducendo espressamente nell’art. 119 i principi guida del federalismo.

 

3. La programmazione

Per programmazione si intende il documento con cui una amministrazione pubblica  elenca i programmi che si propone di realizzare in un determinato periodo dopo aver esaminato le necessità che si devono risolvere in base ai propri fini istituzionali  tenendo a mente le risorse umane, strumentali e finanziarie che si hanno a disposizione  per raggiungere tali obiettivi nonché i risultati che si intendono ottenere contali strategie aziendali.

Il nuovo ordinamento delle autonomie locali al momento della sua emanazione ha fatto propri i documenti di programmazione economico-finanziaria della pregressa legislazione, caratterizzata da un bilancio finanziario e di cassa che era accompagnato da una relazione previsionale e da un bilancio pluriennale, rinviando ad un provvedimento successivo la predisposizione di un nuovo ordinamento contabile e finanziario. La legge n. 142 ha però inserito negli artt. 55 e 57 dei nuovi principi quali la rilevazione dei risultati di gestione mediante contabilità economica ed il conseguimento nella gestione dell’ente di una efficienza, produttività ed  economicità. Questi tre principi significano che nella gestione dell’ente si deve tenere in considerazione la qualità dei servizi che si producono, la soddisfazione delle necessità per le quali vengono svolti i servizi e l’economicità dell’azione amministrativa, che non sempre viene salvaguardata con la scelta della minor spesa. Lo stimolo a prevedere tali nuovi principi, che saranno compiutamente sviluppati dal successivo d.lgs n. 77/1995, va attribuito alla legge 26 marzo 1990 n. 69 che delega il governo all’attuazione delle direttive comunitarie in materia societaria, sulla base della quale è stato emanato il d.lgs n. 134/1991 che ha riscritto le norme del codice civile sulla predisposizione del bilancio delle società di capitali. Con tali principi la legge n. 142 introduceva nella gestione dell’ente locale dei criteri aziendalistici il cui primo provvedimento attuativo è stata la rivisitazione dell’organo di revisione. L’adozione di criteri aziendalistici nella gestione dell’ ente locale implica il ricorso ad una programmazione degli interventi e 1’accantonamento dei criteri di improvvisazione che, per la professionalità che viene richiesta agli operatori, non è ammessa neanche in presenza di eventi eccezionali.

Nell’ordinamento contabile e finanziario degli enti locali il bilancio di previsione resta il documento contabile principale anche dopo l’emanazione del d.lgs n. 77/1995, che ha completamente rivisitato le indicazioni del Dpr giugno 1979 n. 421, prevedendo un documento contabile in cui i principi finanziari si affiancano a principi di carattere economico. Si  ricorda che la predisposizione di un bilancio non significa altro se non la traduzione in termini finanziari di un programma socio‑economico che coinvolge molteplici attori. Viene rettificato il principio di accertamento dell’entrata e quello di impegno della spesa rapportando detti concetti a quelli di credito e debito, i quali discendono da una obbligazione attiva o passiva giuridicamente perfezionata.

Il bilancio pluriennale era stato introdotto nell’ordinamento degli enti locali dal Dpr n. 421 e nei comuni ha avuto una applicazione progressiva per classi demografiche: il bilancio pluriennale si espande temporalmente per il medesimo periodo che considera il bilancio della regione di appartenenza. L’art. 55 della legge n. 142 al riguardo ha mutuato la legislazione pregressa, ma il successivo d.lgs. n. 77/1995 ha dato una valenza autorizzatoria al bilancio pluriennale. Parlando di bilancio pluriennale autorizzatorio, si deve tenere in evidenza la circostanza che le previsioni degli anni successive a quello di competenza sono condizionate dalle successive legge finanziarie: ne consegue che le previsioni pluriennali vanno vagliate e ponderate con molta oculatezza prima di assumere impegni ed accertamenti.

Il principio della programmazione intergenerazionale ha avuto una ulteriore attenzione negli enti locali da parte della legge sull’elezione diretta del sindaco e del presidente della provincia, prevedendo un documento sugli indirizzi generali di governo, che egli presenta al consiglio dell’ente locale nella sua prima seduta. In questo documento vengono sintetizzate le linee programmatiche relative ad azioni e progetti  da realizzare nel corso del mandato.

La relazione previsionale costituisce un allegato sostanziale al bilancio e deve spaziare sul medesimo arco temporale del bilancio pluriennale. Questa relazione è stata introdotta nell’ordinamento senza prevedere particolari prescrizioni dall’art.  1 quater, comma terzo del decreto legge 28.02.1983 n.55 convertito con modificazioni nella legge 26.041983 n. 131 prevedendo che la stessa vada stesa in conformità agli obiettivi programmatici risultanti dal programma regionale di sviluppo; questo  documento ha ricevuto una configurazione di spessore e sistematica solo con il d.lgs n. 77. La relazione deve fotografare il contesto socioeconomico esistente e comprende una valutazione sui mezzi finanziari a disposizione, oltre ad una disamina sui programmi e sugli eventuali progetti indicati in soli termini finanziari nel bilancio; in particolare i programmi dovranno essere  integrati con l’indicazione delle finalità che si intendere raggiungere con le risorse che sono ad essi destinate e con adeguati elementi che dimostrino la coerenza dei programmi con gli strumenti urbanistici. Si rileva che il raggiungimento degli obiettivi deve tenere conto oltre degli aspetti finanziari del bilancio anche dell’efficacia, dell’efficienza e dell’economicità dell’azione amministrativa: conseguentemente il bilancio non va redatto solo con criteri ragionieristici e suoi dati contabili necessitano di essere implementati da una lettura per programmi, servizi ed interventi.

Con il d.lgs n. 77 viene individuato un nuovo strumento di programmazione a carattere annuale nel piano esecutivo di gestione (Peg), obbligatorio per le provincie e per i comuni con oltre 15.000 abitanti (art. 169 del t.u.): questo strumento gestionale deve fungere da raccordo tra le funzioni di indirizzo politico degli amministratori e quelle dei responsabili dei servizi, per non essere una semplice e formale assegnazione di risorse ai funzionari, ma per configurarsi come una ripartizione di competenze e responsabilità per il raggiungimento degli obiettivi dell’Amministrazione. La giunta, prima dell’inizio dell’esercizio, deve adottare un Peg strutturato in conformità  ai programmi espressi nel bilancio e nella relazione programmatica e previsionale e che sia coerente con le dotazioni finanziarie stanziate e assegnate ai responsabili dei servizi: ciò presuppone un coinvolgimento delle strutture fin dalla predisposizione dell’ipotesi di bilancio. Inoltre, indipendentemente dall’adozione del Peg, a ciascun servizio viene affidato con il bilancio un complesso di beni finanziari, di cui risponde il responsabile del servizio, necessari per l’effettuazione dei servizi assegnati; il responsabile del servizio può proporre alla giunta una modifica delle assegnazioni per esigenze sopravvenute nel corso della gestione.

In una corretta amministrazione si devono verificare i risultati della propria attività e confrontarli coni programmi da cui si è partiti, per effettuare le dovute considerazioni  sui risultati raggiunti. Infatti, il documento programmatorio, per quanto prefetto esso sia, rappresenta soltanto gli obiettivi che si intendono raggiungere nel periodo temporale prefissato. Conseguentemente il legislatore nel rivisitare l’ordinamento delle autonomie locali ha dato al rendiconto lo spazio che si meritava nel processo di aziendalizzazione degli enti locali.

La maggior attenzione che viene progressivamente riservata al rendiconto viene evidenziata già dal decreto legge 2 marzo 1989 n. 55 convertito con modificazioni nella legge n. 155 all’art. 4, decimo comma, aveva disposto che per la concessione dei mutui le delegazioni sulle entrate degli enti locali venissero rilasciate sulla base delle risultanze dell’ultimo consuntivo approvato e non più sulla scorta dell’ultimo bilancio di previsione. Inafatti il bilancio per quanto oculatamente predisposto è sempre un documento preventivo anche se autorizzatorio ad effettuare entrate e spese, mentre il rendiconto fornisce o dati certi sul risultato della gestione. La legge n. 142 introduceva all’art. 55 la distinzione del rendiconto in conto del bilancio ed in conto del patrimonio, nonché la prescrizione di una relazione illustrativa della giunta che esprima le valutazioni di efficacia della azione condotta sulla base dei risultati conseguiti in rapporto ai programmi approvati ed ai costi sostenuti. Il nuovo testo unico all’art. 48 ribadisce il compito della giunta di riferire annualmente al consiglio le modalità ed i risultati della propria attività nel corso dell’esercizio trascorso e la suddivisione del rendiconto  in conto del bilancio, in conto economico ed in conto del patrimonio, ribadendo la necessità di affiancare alle tradizionali rilevazioni finanziarie delle rilevazioni di carattere economico. Nel rendiconto, accanto al conto del bilancio ed al conto del patrimonio, viene introdotto il conto economico il  quale, rettificando i dati finanziari, presenta la situazione economica di esercizio. Si ricorda che nelle aziende economiche, che utilizzano la contabilità economica, il principale documento contabile è sempre il bilancio di gestione, ma con questo documento in regime aziendalistico si registrano i risultati della gestione appena trascorsa come nel rendiconto degli enti che utilizzano la contabilità finanziaria.

Essendo cambiate le regole elettorali gli “eletti” debbono dare conto di ciò che sono riusciti a realizzare del loro programma e di quanto non hanno raggiunto. Il decreto legislativo n.77/1995 nell’articolo 72 al sesto comma lascia spazio alla volontà di ciascun ente di prevedere conti patrimoniali di inizio e fine mandato degli amministratori. Si ritiene che un conto patrimoniale di inizio mandato non sia concretizzabile perché per la predisposizione dello stesso la nuova amministrazione deve prendere conoscenza dallo stato generale del patrimonio dell’ente e ciò non è fattibile in tempi brevi: se 1′ adempimento viene previsto, la sua effettuazione deve essere coeva alla presentazione degli indirizzi generali di governo di cui all’articolo 34 della legge n. 142; pertanto si suggerisce di prevedere solo la predisposizione di un conto patrimoniale di fine esercizio, a cui si ritiene sia più opportuno attribuire la configurazione di un rendiconto di fine esercizio, intendendo la dizione patrimonio in senso lato, di patrimonio della comunità. Infatti se ci si attesta sulla formulazione di un mero conto patrimoniale dell’ente locale, la sua predisposizione riveste una connotazione eminentemente ragionieristica, che comunque può servire come memoria fotografica dello stato dell’ ente. Si suggerisce la predisposizione di un rendiconto di gestione che partendo dal programma di legislatura si colleghi con le modifiche intervenute sullo stato patrimoniale dell’ente in conseguenza dell’attività amministrativa, evidenziando anche le modifiche intervenute nel medesimo periodo sull’intero contesto sociale amministrato. Questo documento va presentato al Consiglio comunale per il suo esame entro trenta giorni dalla convocazione delle consultazioni elettorali. L’amministrazione comunale è una delle principali protagoniste delle vicende cittadine: con la legge n.142 l’ente locale è ancora più titolare di una investitura e di una rappresentanza generale che gli impone di partecipare alle soluzioni di tutti i problemi cittadini, anche dei tanti che non sono conseguenza diretta della propria azione.

Questa proposta parte dalla considerazione che per descrivere lo stato di una impresa non è sufficiente illustrarne la posizione sul mercato con il solo bilancio presentato ai soci: anche per l’azienda “ente locale” nel rendiconto di mandato i documenti contabili debbono essere integrati con altri elementi descrittivi illustrativi della realtà esterna. I documenti contabili dell’ ente infatti non sono in grado di rappresentare la situazione dell’ aggregato sociale amministrato. Diventa rilevante conoscere non solo la realtà interna all’ente, ma si deve monitorare anche la realtà esterna e i suoi cambiamenti: è quest’ultima infatti a permettere di valutare i risultati di una buona o cattiva amministrazione, ed è comunque questa ad essere percepita dai cittadini. L’obiettivo di questo nuovo lavoro deve essere quello di collegare ai documenti di bilancio, che storicamente hanno avuto una funzione ed un’ottica più limitata, altri documenti che consentano di rappresentare la situazione di partenza e quella di arrivo degli enti locali nel periodo in esame. Vanno sviluppati alcuni punti appena accennati nella legge e negli schemi ministeriali dei documenti contabili, in particolare le caratteristiche generali del territorio e dell’economia insediata e gli elementi che dimostrino la coerenza delle previsioni annuali e pluriennali con gli strumenti urbanistici e i relativi piani di attuazione; non limitandosi alle sole previsioni che incidono sui bilanci, ma ampliando il campo di osservazione. E’ molto utile conoscere gli elementi che possono rappresentare un determinato contesto, al fine di paragonare lo stesso nel tempo, o contesti diversi tra loro, per verificare come hanno inciso le diverse gestioni. Può diventare necessario valutare i punti di partenza e i punti di arrivo delle diverse realtà territoriali, confrontarli nel tempo e fra loro e verificare come incidono le politiche di entrata e di spesa. E’ molto importante anche per gli amministratori mettere a punto uno strumento che consenta loro, a consuntivo del loro mandato, di dimostrare quali sono i risultati raggiunti e come hanno inciso sulla realtà cittadina. Occorre verificare le caratteristiche ambientali‑ecologiche, i livelli di dotazione di infrastrutture, attrezzature e spazi collettivi, comprendendo anche gli spazi, le aree e i manufatti, di uso e fruizione pubblica, anche se di proprietà privata, che rivestono per la collettività un interesse tale da concorrere nel loro insieme a definire la qualità del territorio e degli insediamenti. Qualità che va valutata, oltre che attraverso i parametri dimensionali, anche mediante parametri prestazionali come accessibilità, fruibilità, caratteri funzionali, morfologici e tipologici, nonché attraverso la misurazione di requisiti ambientali e gestionali. Si debbono quindi ricercare quali sono gli elementi atti a rappresentare le condizioni di vivibilità del territorio; questi ultimi elementi in gran parte possono essere tratti, rielaborandoli dalla disciplina urbanistica, altri sono da ricavare dalle scienze sociali.

L’ipotesi  proposta è più percorribile nei comuni e nelle unioni di comuni che rappresentano un aggregato sociale con molteplici punti di convergenza, ma la medesima è ugualmente fattibile  anche nei microcomuni che comunque sono enti esponenziali di un aggregati sociale. Comunque, anche se non viene accolta la proposta di formulare un rendiconto di mandato, ciascun ente nell’ambito della sua autonomia in materia di rendiconto dovrà prevedere per i cittadini e gli organismi di partecipazione forme appropriate di conoscenza dei suoi contenuti, che precedentemente erano garantite dai trenta giorni di deposito in segreteria dei documenti contabili per la loro consultazione.

 

4. La gestione dei servizi

Un particolare aspetto nel processo di aziendalizzazione delle pubbliche amministrazioni è previsto dall’art. 6 della legge 24.12.1993 n. 547 che impone il divieto del rinnovo tacito dei contratti per forniture di beni e servizi nonché la previsione in tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa di una clausola di revisione periodica del prezzo.

Nella gestione dei servizi pubblici, che hanno per oggetto la produzione di beni o attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali, nonché nella quotidiana gestione amministrativa dell’ente locale, la legge n. 142 prevede la ricerca di strumenti operativi con cui raggiungere una migliore efficienza, produttività ed economicità. Queste poche parole, codificate dal legislatore del 1990 nel contesto della nuova regolamentazione dell’organo di revisione, impongono agli enti locali un cambio nelle modalità di gestione, in quanto riconoscono come superato il principio della legittimità degli atti amministrativi come unica pietra di paragone della qualità dei risultati, essendo stato testato che la legittimità di un singolo atto non è condizione sufficiente per assicurare il raggiungimento degli obiettivi approvati dagli organi politici. Ciò implica un’impostazione delle modalità di gestione con criteri aziendalistici, ma con 1’avvertenza che in un ente pubblico va comunque rispettato il principio della legalità dell’azione amministrativa e che il suo risultato non va valutato solo sotto 1′ aspetto del rendimento economico ma anche considerando l’indice di soddisfazione delle necessità sociali. In questa ottica è da prevedere che non necessariamente ogni funzione o attività, di cui l’ente locale sia titolare, deve essere esercitata dall’ente ma che la stessa può essere svolta anche dai privati e che, di conseguenza, l’ente deve intervenire solo quando i singoli o le loro associazioni non sono in grado da soli di rispondere alle loro esigenze. In questo modo nuovo di gestire la cosa pubblica si dovranno prendere nella dovuta considerazione le esternalizzazioni delle funzioni amministrative, che si materializzano nell’affidamento a soggetti esterni all’ente di attività che non prevedono valutazioni soggettive o che hanno valutazioni vincolate e che non necessitano della fissazione né dell’avvio né della conclusione del procedimento (copiatura di verbali, predisposizione degli inventari e delle paghe, pulizie degli uffici e delle aree pubbliche, accertamento dei pagamenti, ecc.) dando così la possibilità all’ente di riqualificare le proprie risorse di personale per compiti più specializzati. Attivando questa politica si responsabilizzano maggiormente i cittadini che diventano protagonisti della vita pubblica e nel frattempo si decongestiona l’attività dell’ente locale. Il novo ordinamento degli enti locali del 1990 ha riservato due articoli alla gestione dei servizi pubblici locali innovando la materia con l’introduzione della figura giuridica dell’istituzione e dando la possibilità agli enti locali di gestire i servizi pubblici anche costituendo società per azioni o a responsabilità limitata. L’istituzione  presenta una organizzazione autonoma dall’ente locale di cui è un organismo strumentale per l’esercizio di servizi sociali, ma a differenza dell’azienda speciale è priva di personalità giuridica e la sua organizzazione è disciplinata dallo statuto e dai regolamenti dell’ente locale. In merito alla costituzione o alla partecipazione a società il legislatore aveva previsto che, qualora sia opportuna la partecipazione di più soggetti pubblici o privati in relazione alla natura o all’ambito territoriale del servizio che viene svolto, il capitale pubblico locale sia prevalente: la normativa successivamente intervenuta sulla medesima materia (la legge n. 498/ 1992) ha dato la possibilità di costituire società per azioni anche senza il vincolo della proprietà maggioritaria. Il nuovo testo unico ha riassemblato la normativa preesistente all’art. 112 e seguenti, regolando separatamente la trasformazione delle aziende speciali in società per azioni. L’indirizzo che si va consolidando nella gestione dei servizi pubblici è quello di appaltarli sul mercato. La materia della gestione dei servizi pubblici attende una rivisitazione parlamentare da diversi anni, che però stenta a giungere nella sua fase conclusiva. Si ricorda che sulla qualità dei servizi pubblici si è già soffermato l’art. 11 del  d.lgs n. 286 (il decreto sui controlli interni) prevedendo che l’erogazione di questi servizi sia effettuata con modalità che promuovano il miglioramento della qualità e assicurino la tutela dei cittadini e degli utenti nonchè la loro partecipazione, anche nelle forme associative, alle procedure di valutazione e definizione degli standard qualitativi. Con la legge n. 388/2000 all’art. 54 è stata resa possibile la revisione delle tariffe dei servizi anche in corso di esercizio, qualora si sia in presenza di costi di gestione superiori alle previsioni di bilancio.

 

5. Il processo di semplificazione

Un altro aspetto dell’aziendalizzazione dell’ente locale si individua nella semplificazione delle procedure amministrative che sono state attuate anche nel contesto della legislazione di settore. Si deve al riguardo evidenziare che semplificare un procedimento non significa solo renderlo più semplice, ma ciò significa anche realizzare un’economia nei costo diretti e indotti dell’attività amministrativa. In materia di semplificazione si ricordano le principali norme introdotte per tutte le pubbliche amministrazioni e fra esse principalmente: la legge n. 241 che ha codificato i principi della trasparenza della pubblica amministrazione la semplificazione degli atti ; il d.lgs n. 29 che, come provvedimento di organizzazione, ha previsto il coordinamento dei sistemi informatici e   l’istituzione dell’ufficio per le relazioni con il pubblico; l’art. 2 comma 15 della legge 24.12.1993 n. 537 che prevede l’assolvimento dell’obbligo di conservazione e di esibizione di documenti per finalità amministrative e probative tramite la conservazione degli stessi su supporto ottico, realizzato con le procedure dettate dall’autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione; dall’art. 23 e seguenti del d.lgs 31.03.1998 n. 112 che ha delineato l’istituzione in ogni comune dell’ufficio unico per le attività produttive; la legge 08.03.2000 n. 53 che all’art. 22 e seguenti detta le regole per i tempi delle città.

La legge di riforma delle autonomie locali in più parti ha posto la sua attenzione alla semplificazione dell’attività amministrativa; si menzionano in particolare le forme di decentramento delle funzioni amministrative previste dagli artt. 16 e 17 del nuovo testo unico che rispettivamente prevedono l’istituzione, in caso di fusione di comuni, di municipi nei territori delle comunità di origine e l’articolazione del territorio comunale in circoscrizioni di decentramento nei comuni con più di 100.000 abitanti, che è invece facoltativa per gli enti con una popolazione fra i 30.000 e i 100.000 abitanti. Gli articoli dal 30 al 33 del medesimo t.u. prevedono delle forme associative fra enti locali per istituire uffici unici per la gestione di servizi o di funzioni di competenza comunale utilizzando gli istituti delle convenzioni, dei consorzi, delle unioni e dell’esercizio associato di funzioni con la finalità di rendere più efficace ed economica l’attività amministrativa. Infine si rileva che negli spazi lasciati liberi dalla legge all’autonomia degli enti locali, i medesimi possono trovare forme di semplificazione consistenti nell’ unificazione degli atti regolamentari fra enti geograficamente e socio-economicamente omogenei.

Una particolare modalità di semplificazione dell’amministrazione dell’ ente locale è stata prevista dalla legge n. 142 nell’art. 22 nel riordinare l’istituto dei consorzi fra enti locali: il quarto comma prevede che fra gli stessi enti locali non può essere costituito più di un consorzio. La norma, riproposta dall’ art. 31 del t.u., tende a raggruppare in unico ente la gestione di più servizi, per il cui funzionamento con il vecchio testo unico erano stati costituiti dei separati consorzi per ogni servizio (p.e. gas, acqua e fognature che sono tutti servizi a rete) disperdendo così delle risorse, che possono trovare delle economie di scala unificando la gestione dei diversi servizi in una unica organizzazione, che tenga separatamente contabilizzati i singoli servizi.

La legge n. 142 all’art. 27 ha indicato lo strumento della stipulazione di un accordo di programma per la definizione e l’attuazione di opere, di interventi o di programmi di intervento che richiedono, per la loro completa attuazione, l’azione integrata di comuni, di province e regioni, di amministrazioni statali e di altri soggetti pubblici. L’istituto dell’accordo di programma è fatto proprio nella sua sostanza dall’art. 14 e seguenti della legge n. 241 e dall’art. 34 del t.u., ma si deve rimarcare che sull’istituto dell’accordo fra più enti pubblici, per risolvere un intervento che coinvolge più soggetti, la primogenitura spetta alla legge n. 142.

Il nuovo ordinamento ha  ridotto sensibilmente il numero degli atti emanati dalla giunta e dal consiglio che vanno sottoposti al controllo preventivo di legittimità (artt. 45e 46 della legge n. 142); il nuovo testo unico agli articoli 126 e 127 ha ulteriormente ridotto il numero degli atti che debbono essere sotttoposti all’esame del Co.Re.Co: l’operatore dell’ente locale, libero dai vincoli pesanti dei controlli esterni, talvolta sordi alle necessità dell’ente, potrà ora viaggiare con maggior serenità nel raggiungimento degli obiettivi. Il legislatore, parallelamente all’attribuzione di questa maggior autonomia data agli enti locali, per garantire che l’attività di questi enti sia comunque esercitata secondo i principi del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione, ha previsto la possibiltà di introdurre in detti enti diverse fattispecie di controllo interno organzzabili secondo le necessità  di ciascun ente, alcune delle quali erano quasi sconosciute nella legislazione anteriore agli anni ottanta.

L’art 96 del d.lgs n. 267 ha riproposto i contenuti dell’art. 41, primo comma, della legge 27.12.1997 n. 449 che dava la facoltà a tutte le amministrazioni pubbliche di ridurre, entro sei mesi dall’inizio di ogni esercizio finanziario, gli organi collegiali operanti al loro interno che non si ritengono indispensabili: la sua inserzione nel testo unico degli enti locali vuole rimuovere quelle obiezioni che le attribuivano solo una valenza ministeriale. La norma, prevedendo che le funzioni anteriormente esercitate dall’organo soppresso vengano attribuite all’ufficio che riveste preminente competenza nella medesima materia, è chiaramente finalizzata a conseguire risparmi di spesa e recuperi di efficienza nei tempi dei procedimenti amministrativi. Si deve fare attenzione alla circostanza che la fattispecie normativa prevede l’assunzione di un provvedimento che espliciti quali organi si ritengono indispensabili: ne consegue che in caso di mancata assunzione nei termini previsti di un provvedimento di conferma degli organi collegiali costituiti, gli stessi si devono ritenere decaduti ipso iure. 

Con la facoltà concessa agli enti locali di incassare direttamente le proprie entrate tributarie senza dover ricorrere ad intermediari, gli enti hanno ora la possibilità di conoscere subito quanto il contribuente ha versato, mentre con il regime della concessione alla riscossione del tributo il tempo del versamento nelle proprie casse aveva dei margini temporali maggiori.

Con la legge finanziaria per il 2001 (la n. 388 del 2000) al comma undicesimo dell’ art. 66 le province ed  i comuni fino a 10.000 abitanti sono stati autorizzati ad una uscita progessiva dal sistema di tesoreria unica, introdotto dalla legge 29.10.1984 n. 720: questi enti si vedono così semplificare le modalità e gli strumenti di azione per gestire la propria liquidità. Sulla medesima materia era già intervenuta a favore degli enti minori la legislazione di qualche regione a statuto speciale.

Da quanto esposto si deduce che il processo di riforma avviato dalla legge n. 142 ha trasformato l’ ente locale, da un apparato burocratico che eroga servizi standardizzati, in un sistema integrato di funzioni che producono, con criteri aziendali, attività adeguate alle necessità del cittadino. Inoltre nel quadro normativo che emerge dal nuovo testo unico i comuni e le province vengono configurati come l’ ente che è in grado di incidere sulla qualità  e sulla vivibilità del proprio territorio, senza dover dipendere dalle decisioni che vengono adottate da altre autorità. Conseguentemente l’applicazione dei principi previsti da questa riforma non deve essere sentita come l’adempimento di una formalità, ma deve essere vissuta come una modifica culturale dei comportamenti

 

 

 

Indice- Sommario

 

§ 1  La legge sulle autonomie locali

 

 

1. innovazioni legislative negli enti locali                                                   1

2. significato della potestà statutaria                                                            3

3. le città metropolitane ed i com micocomuni                                            4

 

§ 2  Nuovo ruolo del cittadino

 

1. il cittadino                                                                                                7

2. la trasparenza                                                                                    8

 

§ 3 La centralità del capo dell’ amministrazione

 

1. la funzione di indirizzo e la funzione di gestione                                  10

2. il capo dell’ amministrazione                                                                 11

3. la giunta                                                                                                  13

4. Il consiglio                                                                                              13

5. l’evoluzione dei controlli                                                                        15

6. la valutazione e il controllo strategico                                                    18

 

§ 4 La funzione degli organi burocratici

 

1. la funzione degli organi burocratici                                                        19

2. il segretario                                                                                             21

3. il direttore generale                                                                                 23

4. i dirigenti                                                                                                 24

5. il controllo di gestione                                                                            26

6. la valutazione del personale                                                                    28

 

§ 5 Il processo di aziendalizzazione

 

1. il rafforzamento degli organi                                                                  32

2. l’autonomia finanziaria                                                                           33

3. la programmazione                                                                                 34

4. la gestione dei servizi                                                                             37

5. il processo di semplificazione                                                                38

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