L’ente locale nel terzo millennio.

§ 1  La legge sulle autonomie locali (introduzione, significato della potestà statutaria, le città metropolitane ed i comuni  di dimensioni ridotte) § 2 Nuovo ruolo del cittadino (il cittadino, la trasparenza ) § 3 La centralità del capo dell’ amministrazione (la funzione di indirizzo e la funzione di gestione, il capo dell’ amministrazione, la giunta, la valutazione e il controllo strategico, il consiglio) § 4 La funzione degli organi burocratici (la funzione degli organi burocratici, il segretario, i dirigenti, il direttore generale, il controllo di gestione, l’evoluzione dei controlli, la valutazione del personale) § 5 Il processo di aziendalizzazione (il rafforzamento degli organi, l’autonomia finanziaria, la programmazione, l’organo di revisione, la gestione dei servizi, la maggior valutazione del rendiconto, il processo di semplificazione)

 

 

§  1 La legge sulle autonomie locali

 

Introduzione

La recente rivisitazione in senso federalista del titolo V della Costituzione, interessando essa anche gli enti locali, ci induce ad analizzare le innovazioni di spessore apportate all’ordinamento degli enti locali in dieci anni di riforma delle autonomie locali. Si ritiene positiva per gli enti locali la novazione apportata alla Costituzione perché gratifica il loro ruolo nello stato, prevedendo a livello costituzionale un consiglio delle autonomie locali quale organo di consultazione fra le regioni e gli enti locali, mentre analogo organo fra stato e regioni è stato disciplinato da una legge ordinaria. Comunque la modifica apportata alla carta costituzionale pone solo i principi del federalismo, che ora dovrà essere attuato con un non semplice percorso nel parlamento e nei consigli regionali.

L’ente locale si è trovato investito dal legislatore progressivamente di maggiori competenze sia nel settore della pianificazione urbana, che permette di disciplinare lo sviluppo della vita della città,  che nelle attività di erogazione di servizi alla comunità. Per dare spazio allo svolgimento di queste nuove competenze ci si rendeva giornalmente conto che il testo unico del 1934, con le sue appendici risalenti al 1911 ed al 1915, come novate dai provvedimenti legislativi che fra il 1945 e il 1947 hanno adeguato la normativa alla cambiata forma di governo, rappresentava una matrice non al passo con il contesto socioeconomico: infatti, era ormai consolidata l’individuazione del comune secondo l’accezione di ente autonomo che cura i fini generali di una determinata collettività stanziata sul proprio territorio. Dopo pluriennali proposte parlamentari, finalmente nel 1990 è stata approvata la nuova legge sulle autonomie locali (la legge 8 giugno n. 142): a dieci anni dall’ entrata in vigore di questo nuovo ordinamento si rende opportuno fare una riflessione su cosa è cambiato nel funzionamento di questi enti, che sul territorio nazionale sono la prima organizzazione pubblica che è a diretto contatto con i cittadini. Si deve evidenziare che la rivisitazione di questa normativa è intervenuta con quasi venti anni di ritardo rispetto l’ordinamento regionale e con più di quaranta anni di ritardo rispetto le previsioni della Costituzione: questo è un ritardo colpevole poiché ha dimostrato la poca sensibilità del legislatore alle esigenze degli enti locali, che, dopo l’entrata in funzione delle regioni, si trovavano a confronto con un centralismo regionale che si stava progressivamente sostituendo a quello statale. Sulla falsariga di queste considerazioni sorge il dubbio che, se il parlamento non avesse dovuto ratificare con la legge 30 dicembre 1989 n. 439 la convenzione europea relativa alla Carta  dell’Autonomia Locale, firmata a Strasburgo nel 1985,  i contenuti della legge n. 142 sarebbero stati frutto delle modifiche istituzionali apportate alla nostra organizzazione statale dalle leggi Bassanini del 1997 e che nel frattempo si sarebbe provveduto a degli aggiustamenti normativi non di spessore, ma necessari per l’adeguamento della normativa di settore all’evoluzione dell’ordinamento giuridico. Al di là di queste critiche, si deve prendere atto che la legge n. 142 è stata uno dei primi provvedimenti normativi che ha disciplinato compiutamente nel nostro ordinamento giuridico la delegificazione e la semplificazione amministrativa. Inoltre a questa legge compete la primogenitura della positivazione del principio che separa la funzione di indirizzo politico da quella della gestione amministrativa. Questa non semplice situazione normativa va esaminata anche nell’ottica della potestà legislativa primaria attribuita in materia di enti locali alla Regioni a statuto speciale.

La materializzazione dei principi contenuti nel nuovo ordinamento degli enti locali ha comportato l’impiego di un lasso temporale superiore rispetto le aspettative del legislatore, in quanto  la legge n. 142, essendo sia una legge essenzialmente di principi che frutto di un voto di fiducia, necessitava dell’ emanazione di successivi atti normativi di adeguamento e attuazione per permettere ai singoli enti realmente un’autonoma gestione delle proprie risorse organiche e finanziarie. Molti dei principi che erano astrattamente contenuti nella legge n. 142 sono stati attuati con l’ausilio della legge 23 ottobre 1992 n. 421, che prevedeva la razionalizzazione delle amministrazioni pubbliche, il riordino del sistema sanitario, del pubblico impiego e dell’ordinamento contabile e tributario degli enti locali, nonché della legge 25 marzo 1993 n.81, sull’elezione diretta del sindaco e del presidente della provincia. In questo quadro normativo un ruolo a se stante va riservato al decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29 (emanato in base alla delega contenuta nella legge n. 421) il quale prevede norme sulla razionalizzazione delle pubbliche amministrazioni e sulla revisione del pubblico impiego; in particolare questo decreto ha il pregio di allargare a tutte le pubbliche amministrazioni il principio della separazione del potere di indirizzo politico dai compiti gestionali e di rivolgere l’attenzione della pubblica amministrazione ai risultati della sua attività, i quali devono essere raggiunti rispettando la legittimità e garantendo 1′ economicità, l’ efficienza e l’ efficacia dell’azione amministrativa. Un ulteriore passo verso il completamento del nuovo ordinamento è stato compiuto con 1′ emanazione del d.lgs 25 febbraio 1995 n. 77 (anche esso previsto dalla legge n. 421), che ridisciplina 1′ ordinamento finanziario e contabile degli enti locali. Gli ultimi provvedimenti legislativi che implementano e cercano di riordinare i contenuti di quel paniere normativo con cui si è voluto forgiare un ente locale moderno ed efficiente, si rinvengono nella legge 3 agosto 1999 n. 265, che rivisita molti istituti della legge n. 142, e nel quasi coevo decreto legislativo 30 luglio 1999 n. 286, che detta norme sui controlli interni negli enti pubblici. La produzione legislativa di settore è stata abbondante, ed ha assunto in qualche momento una connotazione che eufemisticamente si può aggettivare come alluvionale, per cui sussisteva la materiale necessità di avere a disposizione un testo unico, che fungesse da crogiolo per amalgamare le molteplici norme esistenti. Il testo unico, tanto atteso, è stato approvato con il decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 267: esso rappresenta una nuova chiave di lettura di dieci anni di riforma delle autonomie locali, in quanto gli è stata attribuita dal legislatore la potestà di armonizzare la normativa preesistente; conseguentemente le innovazioni del testo unico diventano efficaci dal momento delle sue entrate in vigore e le precedenti norme, che sono state modificate, vengono coassialmente abrogate. Il d.lgs n. 267 è un complesso organico di norme che, abrogandone totalmente o parzialmente alcune emesse in dieci anni di continue riforme, tende a valorizzare in particolar modo l’autonomia locale. Per comprendere la portata di questi provvedimenti legislativi, gli stessi devono essere inquadrati fra gli aggiustamenti legislativi necessari per preservare l’ armonia normativa generale con l’evoluzione del contesto socio‑politico e per evitare che alcune norme, che risultano inadeguate dopo la loro emanazione, vadano in dissuetudine ed appesantiscano inutilmente il quadro normativo.

 

Significato della potestà statutaria

Una delle innovazioni di maggior spessore della legge n. 142 è l’attribuzione della potestà statutaria a provincie e comuni: con la potestà statutaria è stata finalmente resa una proposizione forte l’autonomia degli enti locali, che sono diventati effettivamente dei centri autonomi di responsabilità, mentre prima la loro autonomia era solo un principio astrattamente previsto dalla nostra Costituzione. Con lo statuto, e con la potestà regolamentare il legislatore ha voluto dare ad ogni ente la possibilità di forgiarsi un corpo normativo consono alle proprie caratteristiche, rispondendo così alle esigenze di avere delle regole più vicine ai cittadini. Lo statuto rappresenta lo strumento giuridico con cui si supera 1′ appiattimento giuridico fra gli enti locali che era tipico del precedente ordinamento: con lo statuto, infatti, ogni ente può codificare le proprie caratteristiche e definire meglio la propria posizione sul territorio. Nella gerarchia delle fonti normative allo statuto viene riconosciuta una particolare posizione, in quanto, pur essendo un atto regolamentare, la legge gli ha attribuito una capacità abrogativa nei confronti delle precedenti norme di settore. Lo statuto nell’ambito dei principi fissati dalle leggi, che costituiscono un limite inderogabile alla loro autonomia normativa, specifica le attribuzioni degli organi, le forme di garanzia e di partecipazione delle minoranze all’ attività politico‑amministrativa dell’ ente locale, l’ ordinamento degli uffici e dei servizi; inoltre lo statuto deve prevedere le forme di collaborazione fra enti locali, di partecipazione popolare, del decentramento, dell’ accesso dei cittadini alle informazioni e ai procedimenti amministrativi, oltre a tutti gli altri argomenti specificatamente previsti dal testo unico. Data la validità dei principi a cui si informa la potestà statutarie attribuita agli enti locali, il legislatore, nel contesto della riforma federale della Costituzione, ha dato dignità costituzionale allo statuto degli enti locali. La rivisitazione dello statuto, che viene ora disposta dall’art. 3, comma terzo, del nuovo testo unico sulle autonomie locali, implica anche una verifica di come è stata esercitata l’autonomia attribuita agli enti locali. In questo lavoro di rivisitazione dovrà essere setacciata tutta la legislazione di settore sia per focalizzare la normativa che non è stata esplicitamente abrogata (cfr. art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale) che per individuare eventuali norme che sono state disapplicate o quali invece sono rimaste inapplicate. Una particolare attenzione dovrà essere posta alle norme che regolano ogni singolo istituto, le quali possono essere sparse fra più articoli o anche fra diverse fonti: ad esempio l’istituto della ratifica alle variazioni di bilancio è regolata dal combinato disposto degli articoli 42, ultimo comma, e 175, quarto comma, del nuovo testo unico; il programma degli investimenti è regolato dall’articolo 199 e seguenti del t.u. e dall’art. 14 della legge 11 febbraio 1994 n. 109 e dai relativi provvedimenti di attuazione (art. 13 DPR 554/1999 e DM 21.06.2000). Si dovrà effettuare di conseguenza un coassiale lavoro di aggiornamento della normativa regolamentare, con l’attenzione che lo statuto deve essere un contenitore di principi, mentre le norme di dettaglio trovano allocazione nei regolamenti. Nell’ambito della normativa così focalizzata, si dovrà porre particolare attenzione alle opzioni che sono attribuite alla potestà statutaria e regolamentare dell’ente, agli argomenti che vengono demandati per la loro attuazione alla potestà normativa locale ed agli spazi che sono lasciati liberi dalla legge.

Essendo lo statuto l’atto regolamentare principale dell’ ente locale, il legislatore ha previsto per la sua approvazione che il testo statutario deve ottenere il consenso dei due terzi dei consiglieri assegnati: nell’eventualità che non venga raggiunta tale maggioranza, la votazione dovrà essere ripetuta in successive sedute entro trenta giorni e lo statuto si intenderà approvato se otterrà per due volte il voto favorevole della maggioranza dei consiglieri assegnati. Dopo che lo statuto avrà esitato positivamente l’ esame di legittimità da parte del Comitato Regionale di Controllo (CO.RE.CO), lo stesso verrà pubblicato all’ albo dell’ente per trenta giorni nonché nella raccolta ufficiale degli statuti presso il Ministero dell’ Interno, affinché chiunque sia in grado di prenderne conoscenza.

Si deve evidenziare che con la potestà statutaria si concretizza nell’ ente locale il principio di sussidiarietà, che prevede l’ attribuzione di competenze normative all’ ente che è più vicino ai destinatari delle decisioni amministrative e dei relativi procedimenti.

 

 

Le città metropolitane ed i comuni di dimensioni ridotte

Il legislatore del 1990 nel riformare l’ordinamento degli enti locali ha tenuto in evidenza sia i grandi aggregati urbani, che costituiscono una interconnessione economico-socile fra più comuni, che le piccole realtà comunali. Il testo unico del 1934 attribuiva particolari connotazioni solo al comune di Roma, ma il legislatore del 1990 ha preso atto dell’ esistenza di altre realtà sorte a seguito dei fenomeni di inurbamento ed ha previsto che le regioni, su proposta degli enti locali interessati, delimitino le aree metropolitane nei territori dei comuni che hanno rapporti di stretta integrazione territoriale in relazione alle attività economiche, ai servizi essenziali alla vita sociale, nonché alle relazioni culturali e alle caratteristiche territoriali. Ai comuni facenti parte di un’ area metropolitana  è data la facoltà di costituirsi in una città metropolitana, che viene considerata come territorio di una nuova provincia qualora l’ area della città metropolitana non coincida con quella di una provincia La legge n. 142  individuava all’art. 17 alcune arre metropolitane che presentavano un aggregato urbano con forti integrazioni territoriali ed economiche con gli insediamenti abitativi circostanti, demandando alla potestà normativa regionale l’emanazione delle norme di attuazione ed il nuovo testo unico all’ art. 22 e seguenti ha trasposto la normativa preesistente in materia di are metropolitane. Nel contesto della riforma federale della Castituzione il legislatore ha voluto dare un rango costituzionale all’individuazione della capitale del nostro stato nella città di Roma, prevedendo per essa un particolare ordinamento normativo.

Uno degli obiettivi che si è posta la legge n. 142 è assicurare anche agli enti locali di ridotte dimensioni la possibilità di dar seguito al processo di riforma, nonostante le ridotte dimensioni delle loro strutture burocratiche. Gli strumenti con cui viene incentivato l’ obiettivo di rendere funzionali questi enti si individuano nella facoltà data ai comuni di associarsi tramite le fusioni, le convenzioni e le unioni.

Nel contesto della normativa che regola le modificazioni territoriali degli enti locali, competenza già attribuita dallo stato alle regioni dalla legge n. 142, l’ art. 15 del d.lgs n. 267 contempla l’ ipotesi di fusione fra due o più comuni contigui, indipendentemente dal raggiungimento del limite demografico di 10.000 abitanti previsto per la costituzione di nuovi comuni. La norma prevede che la legge regionale di istituzione di nuovi comuni nati per fusione assicuri alle comunità di origine adeguate forme di partecipazione e di decentramento dei servizi. Inoltre, per incentivare le fusioni oltre ai contributi della regione, è previsto che lo stato eroghi, nei dieci anni successivi alla fusione, a questi nuovi enti appositi contributi straordinari commisurati alla quota dei trasferimenti spettanti ai singoli comuni che si fondono. Ad ulteriore incentivo per le fusioni è lasciata allo statuto del nuovo comune la facoltà di prevedere l’ istituzione di municipi nei territori delle comunità di origine, con la possibilità di prevedere appositi organi, eletti a suffragio universale diretto, per il funzionamento dei municipi, la cui funzioni e organizzazione sarà disciplinata dallo statuto e dal regolamento. La legge nel disporre questa norma aveva tenuto in evidenza il fatto che le comunità locali, per quanto di dimensioni demografiche ridotte, non sono solo un’entità giuridica ma rappresentano una determinata cultura radicatasi su di un preciso territorio e di conseguenza ha voluto garantire una forma di rappresentanza a queste comunità, che hanno rinunciato all’esistenza di una loro struttura comunale autonoma.

Considerando la necessità che molti comuni per lo svolgimento delle loro funzioni necessitano di associarsi con altri enti, il t.u. del 1934 aveva riproposto l’ istituto dei consorzi previsto nella legge comunale e provinciale. L’ istituto dei consorzi regolati dall’abrogato testo unico aveva dato vita ad entità sovracomunali il cui compito era sia quello di gestire in economia servizi quali una scuola media, servizio che per la sua gestione non necessitava di una particolare organizzazione politico-burocratica, che quello di gestire il servizio di raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti urbani, servizio che invece per le sue caratteristiche sarebbe dovuto essere gestito anche con criteri aziendalistici. Il legislatore del 1990 per facilitare la costituzione di forme associative con semplici compiti gestionali aveva previsto l’ istituto della stipula di una convenzione che regoli i rapporti fra gli enti per la gestione del servizio, senza la necessità di dar vita a nuove strutture. Il nuovo testo unico ha aggiornato questa normativa stabilendo che nella convenzione può essere prevista la delega di funzioni a favore di uno degli enti partecipanti alla convenzione o la costituzione di un apposito ufficio unico. Le convenzioni costituiscno uno strumento inteso a consentire l’esercizio congiunto ed in modo unitario fra più enti locali di attività che, se svolte singolarmente da ciascuno di essi,  concreterebbero un inutile e dannoso spreco di energie e di mezzi. Esse possono includersi fra gli accordi organizzativi che costituiscono una disciplina concordata di un’attività pubblica, che altrimenti dovrebbe svolgersi mediante attività distinte di ciascun pubblico potere partecipante alla convenzione. Queste convenzioni non concretano un negozio di diritto privato, in quanto le funzioni che ne costituiscono l’oggetto non hanno contenuto patrimoniale e sono assoggettate alla disciplina privatistica, in quanto compatibile, essendo assimilabili agli accordi di programma.

La legge n. 142 aveva stabilito che i consorzi tra comuni devono essere attivati solo per la gestione associata di uno o più servizi con le norme previste per le aziende municipali. La nomina dei rappresentanti da parte dei consigli degli enti consorziati in seno all’ assemblea consortile con la  normativa preesistente dava vita ad un organo che aveva forti connotazioni politiche: la 142 ha previsto che queste assemblee siano costituite solo dai rappresentanti legali degli enti associati o dei loro delegati, con peso di voto proporzionale alle dimensioni del proprio ente: con questa innovazione i componenti dell’ assemblea consortile rappresentano solo il loro ente. Il successivo decreto legge 28 agosto 1995 n. 361, convertito con modifiche nella legge 27 ottobre 1995 n. 437, ha precisato che ai consorzi che gestiscono attività aventi rilevanza economica e imprenditoriale si applicano le norme delle aziende speciali. Il d.lgs 267  all’ art. 31 conferma che per la costituzione dei consorzi i consigli degli enti partecipanti devono approvare, con la maggioranza assoluta dei propri componenti, una convenzione e lo statuto del consorzio. La norma citata prevede la trasmissione obbligatoria, agli enti aderenti, degli atti fondamentali del consorzio al fine di garantire la pubblicità degli stessi; viene confermata anche la prescrizione che fra gli stessi enti locali non può essere costituito più di un consorzio, in quanto la precedente legislazione aveva dato luogo ad una proliferazione di consorzi che disperdevano funzioni e risorse.

Accanto a queste formule, che rappresentano un nuovo modo di interagire fra di loro, anche se in parte mutuate dalla precedente legislazione, la legge n. 142 all’ art. 26 aveva previsto l’ istituto dell’ unione di comuni per la gestione associata di uno o più servizi di carattere non economico. Il legislatore inizialmente aveva finalizzato le unioni alla fusione fra i comuni partecipanti all unione, ma proprio conseguentemente a questa prescrizione le unioni inizialmente non sono state recepite secondo le aspettative del legislatore. L’ istituto delle unioni è stato riformato con la legge n. 265 rimuovendo il termine di dieci anni entro cui le unioni dovevano trasformarsi in fusioni di comuni, pena lo scioglimento dell’ unione: il d.lgs n. 267 ha recepito la preesistente normativa sulle unioni, confermando lo stralcio della prescrizione che limitava la costituzione dell’ unione ai soli comuni appartenenti ad una medesima provincia. Per la costituzione dell’ unione è prevista l’ approvazione da parte dei consigli degli enti partecipanti, con la maggioranza dei rispettivi componenti, dell’atto costitutivo e dello statuto dell’ unione, nei quali vengono regolate le modalità di gestione delle funzioni.

Il nuovo testo unico all’art. 33 riprende e sviluppa 1′ istituto associato delle funzioni fra comuni introdotto dalla legge n. 265 prevedendo l’intervento delle regioni per favorire il processo riorganizzazione sovracomunale dei servizi e delle funzioni esercitate dagli enti locali. Con la rivisitazione dell’ordinamento delle autonomie locali, al fine di favorire l’esercizio associato delle funzioni dei comuni di minor dimensione demografica, è stata attribuita alle regioni la potestà di individuare livelli ottimali e sedi per l’esercizio delle funzioni attribuite ai comuni e di prevedere forme di incentivazione  per favorire tali associazioni.

 

 

§  2  Nuovo ruolo del cittadino

 

Il cittadino

L’interesse dedicato al cittadino dalla legge sulla riforma delle autonomie locali, dalla leggesulla trasparenza nella pubblica amministrazione e dalla legge sulla riforma della pubblica amministrazione ha suggerito al legislatore di inserire nella Costituzione il principio che lo stato, le regioni, le città metropolitane, le provincie ed i comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del prinicipio di sussidiarietà.

Il nuovo ordinamento delle autonomie locali, già nel testo approvato nel 1990, ha riconosciuto al cittadino la sua qualità di protagonista dell’attività dell’ente, e non solo quella di utente, ed ha previsto nuove forme di partecipazione popolare alla vita pubblica. In tale ottica la legge n. 142 ha previsto che lo statuto stabilisca come si svolgeranno i rapporti degli organismi di partecipazione con l’ente locale, individuando prioritariamente le comunità di quartiere e/o delle frazioni, che qualificano con le proprie peculiarità e tradizioni secolari le singole comunità. Sull’argomento si deve rilevare che l’art. 8 del d.lgs n. 267, al quinto comma, prevede la possibilità di attivare forme di partecipazione alla vita pubblica locale anche da parte di cittadini stranieri regolarmente soggiornanti: dal tenore di tale norma ne discende che il legislatore presuppone che gli enti locali attivino già autonomamente forme di partecipazione alla vita pubblica a favore dei cittadini italiani che sono temporaneamente presenti nel loro territorio. Sempre nell’interesse dei cittadini è stata prevista, in caso di fusione fra comuni, la possibilità di istituire municipi nei territori delle comunità di origine o in alcune di esse, in modo da garantire dei servizi decentrati a favore delle comunità che hanno dato vita al nuovo ente. Inoltre all’art. 17 si prevede che negli enti con oltre 100.000 abitanti siano istituite forme di articolazione del territorio comunale in circoscrizioni di decentramento delle funzioni amministrative, le quali invece sono facoltative nei comuni con popolazioni fra i 30.000 ed i 100.000 abitanti. Nello statuto possono essere ipotizzate forme di consultazione della popolazione nonché procedure per la presentazione di istanze di cittadini singoli o associati al fine di promuovere interventi per una migliore tutela degli interessi collettivi, con 1′ avvertenza che le consultazioni ed i referendum dovranno avere un’esclusiva attinenza locale. Nel prevedere queste forme di partecipazione e consultazione dei cittadini si deve tenere in evidenza l’economicità dell’azione amministrativa e quindi riservare il referendum, che è una forma di consultazione finanziariamente onerosa, solo agli argomenti di maggior spessore mentre per le altre necessità  si può ricorrere ad una consultazione tramite campionatura. Si fa presente che in materia di consultazioni il testo unico prescrive obbligatoriamente la consultazione dei cittadini solo nell’eventualità che si propongano delle modificazioni territoriali. Sempre nell’interesse del  cittadino sono previste anche particolari forme di partecipazione ai procedimenti che incidono sulle sue situazioni giuridiche soggettive. L’attuale ordinamento prevede anche la possibilità per il singolo cittadino di attivare azioni giudiziarie in nome e per conto dell’ente locale, con l’avvertenza che, in caso di soccombenza dell’ente nel giudizio, le spese restano a carico del cittadino che ha attivato il procedimento.

Particolare importanza è stata data al ruolo del cittadino con la previsione della figura del difensore civico che ha compiti di garanzia dell’imparzialità e del buon andamento dell’amministrazione comunale o provinciale. Suo compito è segnalare, anche di propria iniziativa, le disfunzioni, le carenze, gli abusi ed i ritardi dell’amministrazione. Per la sua istituzione è  necessario che lo statuto prevede l’ipotesi di una sua nomina, disponendo al riguardo le modalità per la sua elezione, le sue prerogative ed i rapporti con gli organi. Il d.lgs n. 267 ha recepito la norma della legge n. 265 che ha attribuito al difensore civico una funzione di controllo eventuale di legittimità sugli atti  dell’ ente: a nostro parere al difensore è stata attribuita una funzione impropria che trova una logicità solo considerando l’imparzialità che deve connotare colui che è chiamato a coprire tale incarico; il legislatore poteva demandare questo compito ad altro organo ausiliario, quale potrebbe essere l’organo di revisione.

Una particolarità normativa, del tutto nuova nell’ordinamento giuridico e che riveste anche la connotazione di una maggior attenzione verso il cittadino, la rinveniamo nell’ art. 147 del nuovo testo unico nella parte in cui prevede l’ attivazione di un controllo strategico sull’attività degli organi politici, controllo che di fatto consiste nella verifica sia dei risultati dell’attività amministrativa che della soddisfazione derivata al cittadino dai medesimi risultati.

 

La trasparenza

La nuova legge sulle autonomie locali ha avuto il pregio di codificare nel nostro ordinamento giuridico alcuni principi (all’epoca già oggetto di un orientamento costante della giurisprudenza amministrativa) quali la trasparenza dell’ azione amministrativa e 1′ accesso agli atti dell’ ente, che sono stati sviluppati dalla quasi coeva legge 7 agosto 1990 n. 241 in materia di procedimenti amministrativi. E’ da evidenziare che questa legge, riprendendo quanto già indicato nella legge n. 142 all’ art. 7 commi 3, 4 e 5, ha il pregio di aver normato in tutti i settori della pubblica amministrazione la trasparenza dell’ attività amministrativa, instaurando la prevalenza del comportamento dell’ accesso agli atti della pubblica amministrazione rispetto la precedente cultura del segreto degli atti pubblici. Non si deve ritenere che al cittadino sia consentito l’accesso indiscriminato agli atti dell’ ente: la stessa legge infatti prevede sia la possibilità di un differimento dell’ ostensione dell’ atto che la possibilità di segretare, con la dovuta motivazione, determinati atti. Su questi argomenti è bene richiamare il contenuto dell’ art. 15 del decreto del presidente della Repubblica 10.01.1957 n. 3 che impone al pubblico dipendente l’ obbligo di mantenere il segreto d’ufficio e l’art. 22 e seguenti della legge n. 241 che disciplinano compiutamente l’accesso agli atti a chiunque vi abbia interesse per la tutela di proprie situazioni giuridiche rilevanti. La medesima materia è stata oggetto anche della legge 31 dicembre 1996 n. 675 che ha previsto, a tutela della riservatezza del singolo cittadino, una limitazione al trattamento dei dati personali sensibili in possesso della pubblica amministrazione, dato che la stessa ha la facoltà di acquisire diversi dati dai soggetti privati, per perseguire i suoi scopi istituzionali. A1 fine di rendere più trasparente ed intellegibile 1’attività degli atti amministrativi, è stato previsto da questa legge che ogni atto deve essere debitamente motivato e che 1′ attività amministrativa non può essere appesantita se non per effettive esigenze imposte dallo svolgimento dell’ istruttoria. Nella motivazione particolare attenzione va riservata all’ interesse pubblico sotteso al provvedimento ed alla sua prevalenza rispetto 1′ interesse privato; è opportuno che, per garantire un’effettiva trasparenza dell’ azione amministrativa, nel contesto dell’atto sia fatta menzione dei procedimenti istruttori che devono supportare ogni provvedimento. Uno dei presupposti della trasparenza è la partecipazione dei cittadini: essi. devono essere informati dall’amministrazione dell’ esistenza di un procedimento che può incidere sulla loro sfera giuridica, con l’invito a prendere visione della relativa documentazione. Un ruolo preminente in quest’ottica spetta alla comunicazione di avvio del procedimento, con la quale si partecipa all’interessato che, a seguito dell’ avvio di quel procedimento, può prendere contatto con 1′ amministrazione indicandogli l’ufficio che è preposto alla relativa pratica ed il funzionario che è responsabile del procedimento, a cui potrà rivolgersi per avere informazioni: con tale comunicazione il cittadino viene messo in grado di esercitare il contraddittorio con l’amministrazione. Si fa presente che 1’avvio del procedimento va notiziato anche a coloro che possono avere in merito un interesse qualificato (i c.d. cointeressati), anche se non rappresentano il diretto destinatario del procedimento. Sempre nell’ottica della trasparenza è previsto che ogni amministrazione deve stabilire il termine entro il quale ogni tipo di procedimento deve essere ultimato: qualora non sia previsto dall’ ente alcun termine per la conclusione di un procedimento, la legge dispone che lo stesso deve essere ultimato entro 30 giorni. Ad integrazione di tale disposizione è stato previsto che in base alla singola fattispecie di richiesta, che viene proposta all’ ente e che va predeterminata con apposito regolamento da parte di ciascuna amministrazione, alla scadenza del termine prefissato dalla presentazione della domanda se non è stata data alcuna risposta dall’amministrazione, la richiesta formulata con il silenzio dell’ amministrazione s’intende accolta o respinta: con questa norma viene facilitato il cittadino che può così iniziare un’attività senza dover attendere una risposta dall’amministrazione ed al tempo stesso viene salvaguardato 1′ utente da prolungati e immotivati silenzi dell’ amministrazione addita. La legge n. 241, prevedendo la figura del responsabile del procedimento e dei termini entro il quale lo stesso va concluso, ha il pregio di aver spostato 1’asse dell’attenzione dal singolo provvedimento al procedimento amministrativo, alla cui conclusione possono concorrere una sequenza di atti: conseguentemente con i principi contenuti nella legge n. 241 viene data maggior considerazione al comportamento della pubblica amministrazione rispetto il perfezionamento del singolo atto. La maggior attenzione  data da questa legge al procedimento amministrativo è la conseguenza logica della presa di coscienza che non è più il singolo atto che qualifica l’ attività amministrativa e che talvolta più atti formalmente legittimi possono concorrere al raggiungimento di un risultato illecito. Il d.lgs n. 267 ha preso atto anche dell’ evoluzione avvenuta nei sistemi di informazione e di archiviazione dei dati acquisiti dall’ amministrazione con la propria attività e all’ art. 12 ha dettato i principi ai quali si devono attenere i sistemi informativi e quelli statistici.  Per rendere effettivi questi principi 1′ art. 18 della legge n. 241 ha previsto 1’obbligo per tutte le amministrazioni pubbliche di adottare entro sei mesi dalla sua entrata in vigore appositi regolamenti idonei a garantire 1’applicazione delle disposizioni in materia di autocertificazioni e presentazioni di documenti da parte di cittadini, ai sensi della legge 4 gennaio 1968 n. 15: questa norma rappresenta la fine della cultura del sospetto della pubblica amministrazione verso il cittadino, che ora viene responsabilmente coinvolto nelle procedure amministrative. In linea con i principi disposti dalla legge n. 241 è la riforma del processo amministrativo, approvata con la legge 21 luglio 2000 n. 205, che a vantaggio del cittadino prevede la riduzione dei termini processuali e la possibilità di stare in giudizio senza 1′ assistenza di un difensore contro il silenzio o il diniego della pubblica amministrazione: infatti, una giustizia che arriva in ritardo si deve considerare una non giustizia e non è equo che il cittadino per difendersi da un comportamento di un’amministrazione debba sempre sostenere gli oneri di un patrocinatore. La normativa in materia di trasparenza dell’ attività amministrativa è corso di aggiornamento, essendo ora in avanzata fase di perfezionamento la proposta di testo unico sulla documentazione amministrativa.

 

 

§  3  La centralità del capo dell’ amministrazione

 

La funzione di indirizzo e la funzione di gestione

Una delle novità di maggior rilievo introdotte dalla legge n. 142, riaffermata dall’ art. 107 del d.lgs n. 267, è il principio, allora del tutto nuovo nel nostro ordinamento giuridico, che agli organi elettivi compete il potere d’indirizzo e controllo, mentre agli organi burocratici spetta la gestione amministrativa dell’ente. Con la introduzione di questo principio è  stato  attuato  un  epocale  cambiamento  di  cultura  nella  gestione  pubblica, dato  che  le imprecise distinzioni nel passato delle sfere di competenza fra l’organo politico e quello burocratico, spesso comportavano un palleggiamento delle responsabilità. Il nuovo ordinamento, attuando una diversa ottica di riparto delle competenze, ha dato la dignità di organo dell’ ente ai dirigenti e coassialmente ha meglio delineato gli  spazi entro cui si devono muovere gli organi politici e quelli burocratici, pur permettendo fra di loro dei momenti di forti integrazioni e di virtuose sinergie. In questo contesto sono state ridisegnate le funzioni degli organi dell’ente, considerando la circostanza che nel precedente ordinamento la rappresentanza esterna, anche per le più semplici funzioni amministrative, competeva solo agli amministratori. Per il cittadino ciò ha comportato un cambiamento del suo approccio con gli amministratori che ora, avendo solo il potere di indirizzo politico e di controllo strategico, possono interferire sulle decisioni che prendono i dirigenti nella gestione dei servizi solo con l’emanazione di atti di indirizzo, talvolta anche dettagliati nei particolari: conseguentemente il cittadino per il funzionamento dei servizi si deve rivolgere direttamente al dirigente responsabile per materia. In questa divisione delle competenze fra organi politici ed organi burocratici, la potestà regolamentare può riservare al segretario dell’ ente la competenza a risolvere gli eventuali conflitti  di competenza che potessero sorgere fra gli organi, essendo egli  all’ interno dell’ ente il soggetto che risponde conformità dell’ azione amministrativa alla legge, allo statuto ed ai regolamenti.

In materia di separazione delle competenze il quinto comma dell’ art. 107  prevede che, dalla entrata in vigore del testo unico, le disposizioni che conferiscono agli organi politici l’adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi si devono intendere nel senso che le relative competenze spettano ai dirigenti, con l’eccezione delle funzioni attribuite al sindaco e al presidente della provincia dalle leggi, dallo statuto e dai regolamenti. Si deve ricordare che analogo principio era stato già espresso dall’art. 45 del d.lgs 31.03.1998 n. 80, ma lo stesso poteva essere considerato come riferito solo alle amministrazioni ministeriali: ora con la sua riproposizione nell’ ordinamento degli enti locali ne consegue la possibilità di una declaratoria di nullità degli atti amministrativi di comuni e provincie che venissero impropriamente assunti da un organo politico.

Perché la separazione delle competenze possa rappresentare un progresso nelle modalità di gestire l’ente locale si deve garantire:

a)      la disponibilità degli amministratori a rinunciare di fatto a prerogative gestionali;

b)      la loro capacità di formulare indirizzi politici concreti e non velleitari, frammentati e connotati da continui cambi di direzione;

c)      l’attribuzione di deleghe assessorili strutturate su obiettivi politici concreti piuttosto che su funzioni tecniche.

In questo quadro della distinzione delle competenze è stranamente intervenuta la legge finanziaria per l’anno 2001 (la legge n. 388 del 23.12.2000) che all’art. 53, comma 23, prevede che nei comuni con meno di 3.000 abitanti, in deroga alle disposizioni vigenti e riesumando una norma che era già stata abrogata, si possano adottare disposizioni regolamentari che attribuiscono ai componenti l’organo esecutivo la responsabilità gestionale degli uffici e dei servizi. La ratio di questa disposizione va individuata nei numerosi casi di applicazione troppo onerosa delle posizioni organizzative, ma al riguardo si deve eccepire che gli amministratori devono individuare con oculatezza all’interno del proprio ente le figure organizzative. La norma, che ridonda a disconoscimento del principio della separazione dei poteri e della responsabilizzazione degli amministratori nel creare uffici unici fra più enti con lo strumento delle convenzioni (proprio per garantire l’efficacia e l’efficienza dei servizi), in alternativa a tale decisione prevede l’ipotesi che il sindaco affidi i compiti gestionali in questione al segretario dell’ente. In ambedue le ipotesi deve essere dimostrata la mancanza non rimediabile di figure professionali nell’ambito dei dipendenti ed il contenimento della spesa derivante dalla decisione, contenimento che deve essere documentato annualmente con apposita delibera in sede di approvazione del bilancio. Si ririene però che l’avocazione degli atti di gestione ai componenti della giunta debba essere subordinata alla verifica della presenza all’interno dell’organo esecutivo di apposite figure professionalmente preparate.

 

Il capo dell’amministrazione

La funzione di rappresentante legale dell’ ente locale giustamente è rimasta attribuita al capo dell’ amministrazione e allo stesso ora compete di diritto il riconoscimento di organo esponenziale della cittadinanza, essendo divenuto con la legge n. 81 espressione diretta della volontà popolare e non più dal consiglio dell’ ente. Il testo unico all’ art. 6 demanda allo statuto le modalità di esercizio della rappresentanza esterna che, anche in giudizio, può essere assegnata ad altri soggetti, individuando in primo luogo i dirigenti. L’ attuale sistema di elezione diretta del capo dell’amministrazione e l’ attribuzione di un premio di maggioranza alla lista dei consiglieri collegati con il candidato eletto sindaco o presidente della provincia, assicurano una maggior stabilità politica all’ amministrazione dell’ ente locale ed imprime al suo capo un carisma di centralità nella direzione strategica dell’ ente che non si rinveniva nel precedente ordinamento. Da questa nuova posizione del sindaco e del presidente della provincia ne consegue l’ attribuzione della titolarità di alcune propte funzioni di indirizzo, il potere di nominare i componenti della giunta (fra i quali un vicesindaco o un vicepresidente) i cui nominativi vengono comunicati al consiglio nella prima seduta successiva alle elezioni (nel precedente ordinamento competeva al consiglio eleggere la giunta) nonché la circostanza che un suo impedimento permanente o le sue dimissioni implicano lo scioglimento della giunta e del consiglio. Il sindaco e il presidente della provincia entrano in carica direttamente con la proclamazione dei risultati elettorali (precedentemente per il loro insediamento si doveva attendere l’ esecutività della deliberazione della loro nomina ed il loro giuramento davanti al prefetto). Al capo dell’ amministrazione compete nominare i rappresentanti dell’ ente presso enti ed istituzioni, restando riservata al consiglio la determinazione dei criteri con cui vanno effettuate queste nomine. Al sindaco e al presidente della provincia è attribuita la facoltà di nomina del segretario e del direttore dell’ ente, nonché dei responsabili degli uffici e dei servizi nonché l’attribuzione degli incarichi dirigenziali. La centralità della figura del capo dell’ amministrazione è stata ulteriormente rafforzata prevedendo la possibilità di costituire, secondo le indicazioni del regolamento degli uffici e dei servizi, degli uffici posti alle dirette dipendenze del capo dell’ amministrazione o degli assessori per l’ esercizio della funzione di indirizzo e di controllo loro attribuite dalla legge, purché 1′ ente non abbia dichiarato il dissesto o non versi in situazioni strutturalmente deficitarie (art. 90 del t.u.). Si puntualizza che i collaboratori fiduciari del capo dell’ amministrazione, assunti con contratto a tempo determinato, decadono automaticamente dall’incarico qualora il sindaco o il presidente della provincia che li ha nominati cessi dalle sue funzioni per qualsiasi motivo prima del termine indicato nel contratto di assunzione. Al fine di armonizzare nel territorio comunale 1’espletamento dei servizi con le esigenze complessive e generali degli utenti, il sindaco d’ intesa con i responsabili territorialmente competenti delle amministrazioni interessate fissa gli orari di apertura al pubblico degli uffici pubblici localizzati sul territorio comunale, nonché gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici; queste ultime competenze sindacali sono state riprese  e sviluppate dalla legge 8 marzo 2000 n. 53, che agli artt. 22 e seguenti prevede una dettagliata regolamentazione dei tempi della città. Su queste competenze si sofferma il nuovo t.u. al 7° comma dell’ art. 50, mentre al successivo art. 54 elenca le attribuzioni del sindaco nelle materie di competenza statale. Si rende opportuno evidenziare che, nei comuni ove non siano istituiti commisaariati di polizia, le attribuzioni di autorità locale di pubblica sicurezza sono esrcitate dal sindaco (art. 15 legge 1 aprile 1981 n. 121) e che, nei comuni ove non abbia sede un ufficio di polizia di stato ovvero un comando dell’arma dei carabinieri o della guardia di finanza,  egli è anche ufficiale di polizia giudiziaria (art. 57 codice di procedura penale).

 

La giunta

In considerazione delle funzioni programmatiche attribuite alla giunta, che possono rendere opportuna la presenza di un amministratore professionalmente preparato, è stato previsto che possono farne parte anche cittadini scelti al di fuori dei componenti il consiglio: la norma vuole permettere la presenza in giunta di assessori qualificati, ma non l’eventuale ripescaggio di candidati che non hanno superato il vaglio della consultazione elettorale. Il testo unico all’art. 47 fissa il numero massimo degli assessori che compongono la giunta, ma lascia allo statuto la possibilità di demandare ad altro organo (consiglio o sindaco) la concreta individuazione del numero degli assessori da nominare nel proprio ente. La legge n. 142 aveva rivisitato le competenze della giunta trasformandola in un organo di collaborazione con il capo dell’amministrazione e la successiva legge n. 265 ha rafforzato il ruolo della giunta, prevedendo che la presentazione al consiglio da parte del sindaco o del presidente della provincia del proprio programma di mandato avvenga solo dopo aver sentito sull’ argomento la giunta (il testo originario della legge n. 81 prevedeva che la presentazione di questo documento venisse effettuata dal capo dell’ amministrazione prima della nomina della giunta). Nel precedente ordinamento alla giunta era concessa la facoltà di surrogare in caso di urgenza il consiglio, ma il cattivo uso di questa facoltà spesso limitava il potere del consiglio anche su decisioni importanti, alla sola ratifica di quanto precedentemente deciso dalla giunta: ora questo potere surrogatorio è stato circoscritto alle sole variazioni di bilancio, con 1′ avvertenza che nell’ attuale ordinamento questi atti devono essere ratificati dal consiglio entro sessanta giorni dalla loro adozione e comunque entro la fine dell’ esercizio finanziario, pena la loro decadenza. Le funzioni di impulso all’ attività amministrativa spettanti alla giunta nel precedente ordinamento venivano compresse da una serie di incombenze amministrative che avevano connotazioni gestionali e non strategiche, incombenze ora attribuite agli organi burocratici. Alla giunta spetta 1′ adozione di atti d’indirizzo politico dell’ attività amministrativa ed altri compiti di rilievo fra i quali sì menziona l’ approvazione del piano esecutivo di gestione, l’ approvazione dei progetti di opere pubbliche, 1’approvazione del regolamento sull’ ordinamento degli uffici e dei servizi, l’ adozione dello schema del bilancio di previsione e del rendiconto, la fissazione delle aliquote dei tributi e delle tariffe dei servizi, l’adozione del piano triennale delle opere pubbliche. La competenza attuale della giunta è di carattere residuale essendole attribuita l’ adozione degli atti non spettanti ad altri organi.

 

La valutazione e il controllo strategico

La funzione di amministrazione attiva propria della giunta dell’ ente locale può identificarsi con quella dell’organo di valutazione e controllo strategico previsto dal d.lgs n. 286, funzione questa che va intesa come attivita di supporto alla programmazione strategica ( in qualche modo è una forma di consulenza interna che valuta la corrispondenza tra obiettivi stabiliti e risultati conseguiti). Questa funzione implica l’ inserimento di logiche e di strumenti di pianificazione di medio e lungo periodo che si contrappongono ai tradizionali sistemi di programmazione confinati ad aspetti di valutazione sostanzialmente finanziaria-autorizzatoria ed in funzione di politiche di investimenti annuali. La pianificazione strategica presuppone la messa a fuoco di una visione evolutiva delle prospettive dell’ ente, mettendo in risalto le opportunità offerte dal contesto di riferimento sia normativo che programmatorio, anche da parte di istituzioni di area più vasta. Tale processo è finalizzato a identificare gli indirizzi di medio e lungo periodo dell’ ente ed è un presupposto per la messa a punto dei piani annuali e triennali. Il controllo strategico operativamente ha una funzione diversa sia dal controllo di gestione che dalla funzione di indirizzo e controllo. Il controllo strategico si identifica in una attività che, rifacendosi ai programmi approvati, agli indirizzi operativi emanati ed ai risultati del controllo di gestione, mira a verificare l’ effettiva attuazione delle scelte operate analizzando la congruenza dei risultati ottenuti con le attività espletate, con le risorse impiegate (umane, finanziarie e strumentali), con gli ostacoli incontrati e con i correttivi ai quali si è ricorsi e principalmente con l’ effetto che l’ intervento ha registrato nel contesto sociale. L’attività di valutazione e controllo strategico utilizza i dati rilavati dal controllo di gestione ma è tesa a valutare, nella loro fase attutiva, l’ adeguatezza delle scelte compiute, mettendo a confronto 1a congruenza o gli scollamenti tra obiettivi predeterminati e risultati raggiunti. Lo scopo di questo tipo di controllo consiste nel verificare il prodotto aggiunto che si è originato con la gestione nonché la qualità dell’impatto che è stato provocato nel contesto sociale dal raggiungimento degli obiettivi prefissati, le modalità con cui gli stessi sono stati raggiunti o le ragioni per le quali sono stati raggiunti solo parzialmente o addirittura sono stati mancati. Questa attività può essere affidata dalla giunta anche ad un supporto esterno ad essa, con il compito di presentare asetticamente e professionalmente gli scostamenti dei risultati ottenuti rispetto i progetti approvati e di suggerire azioni alternative o modificative di quelle precedentemente approvate: naturalmente le valutazioni di merito su queste proposte competono all’ organo politico. A questo nuovo organo può essere attribuito anche il compito di effettuare la valutazione sull’ operato dei dirigenti, del segretario e dell’ eventuale direttore. Date le implicazioni di merito insite in questa fattispecie di controllo, alla relativa documentazione non si applicano le disposizioni sull’ accesso ai documenti amministrativi, essendo una attività di supporto agli organi politici per l’ emanazione di atti di carattere generale.

Presupposto per lo svolgimento del controllo strategico è la relazione previsionale e programmatica che costituisce un allegato al bilancio di previsione: se tale relazione è compilata con scrupolo sulla base dello schema previsto dal d.lgs n. 326/98, dalla stessa devono emergere con chiarezza le caratteristiche dell’ente, le risorse  a disposizione e, tramite i programmi e i progetti, devono essere chiari gli obiettiviche l’ente intende perseguire.

 

Il consiglio

La vecchia legge comunale e provinciale attribuiva al consiglio dell’ ente anche dei compiti di mera gestione amministrativa che di fatto svilivano le sue funzioni di indirizzo politico quale organo esponenziale della cittadinanza. Il nuovo t.u. non ha apportato innovazioni alle funzioni ed al ruolo del consiglio avendo riassemblato e armonizzato agli artt. 37 e seguenti la normativa preesistente. Uno dei principali pregi della legge n. 142 è stato il riordino delle competenze degli organi dell’ ente locale, che nel precedente ordinamento si intrecciavano creando ad una confusione dei rispettivi ruoli, che male si coniugava con il principio del buon andamento e che rendeva difficile sia l’ individuazione dei titolari dei risultati positivi che l’ attribuzione delle eventuali responsabilità. Il nuovo ordinamento degli enti locali ha attribuito al consiglio dell’ ente la funzione di organo di indirizzo e controllo politico‑amministrativo, nonché la competenza all’ adozione dei soli atti fondamentali, sui quali esercita una competenza esclusiva. La funzione di indirizzo e controllo del consiglio dell’ente locale è stata rafforzata dal t.u.: il terzo comma dell’art. articolo 42, infatti, mutuando una previsione della legge n. 265, dispone che il consiglio procede, secondo le modalità fissate dallo statuto, alla definizione, all’adeguamento ed alla verifica periodica delle linee programmatiche presentate dal capo dell’amministrazione e dai singoli assessori; il consiglio ora ha quindi la facoltà di intervenire anche sull’impostazione contenutistica delle linee programmatiche del capo dell’ amministrazione. Un supporto alle funzioni strategiche  del consiglio viene data dall’organo di revisione che ai sensi dell’art. 239, primo comma, ai punti a) e c) collabora con il consiglio nella sua funzione di controllo ed indirizzo: questa funzione attribuita ai revisori deve essere esercitata tramite una collaborazione attiva, che non attende il passivo momento della convocazione da parte dei consiglieri e che può essere garantita solo con un costante esame dei punti di criticità della gestione e da un’apertura alle istanze di tutte le componenti politiche del consiglio.

La funzione del consiglio di organo esponenziale della propria cittadinanza è stata rinforzata anche dalla circostanza che il giuramento del capo dell’ amministrazione di osservare lealmente la costituzione italiana e le sue leggi viene fatto non più davanti al prefetto ma davanti al consiglio dell’ ente nella seduta di insediamento.

La valenza politica del consiglio comunale e provinciale poteva registrare una regressione dall’ elezione diretta del capo dell’ amministrazione, ma il legislatore gli ha contestualmente attribuito una autonomia funzionale dal capo dell’ amministrazione prevedendo la figura del presidente del consiglio nelle provincie e nei comuni con oltre quindicimila abitanti, stabilendo che, ove lo statuto non dia alcuna indicazione sulle modalità di nomina, le funzioni di presidente del consiglio vengono svolte dal consigliere anziano. La legge lascia alla facoltà degli statuti dei comuni minori di stabilire nell’impostazione del proprio assetto istituzionale l’eventuale presenza del presidente del consiglio. Il presidente del consiglio deve assicurare una adeguata e preventiva informazione ai capigruppo consiliari ed ai singoli consiglieri sulle questioni sottoposte al vaglio del consiglio. Con la legge n. 265 è stata istituzionalizzata anche una autonomia funzionale  ed organizzativa del consiglio, prevedendo la possibilità di istituire appositi uffici per il funzionamento del consiglio, demandando ai regolamenti la disciplina delle modalità di assegnazione di servizi, attrezzature e risorse finanziarie.

La figura dei capigruppo consiliari, precedentemente individuata solo dai regolamenti sul funzionamento del consiglio, è stata positivata nell’ordinamento giuridico dalla legge n. 142 all’ art. 45, che prevede la comunicazione ad essi di alcune specifiche deliberazioni, sulle quali un determinato numero di consiglieri può chiedere che il CO.RE.CO eserciti il controllo preventivo di legittimità. Le funzioni di sindacato del consiglio sono state rafforzate dalla legge n. 265 che ha attribuito alle opposizioni consiliari la presidenza delle commissioni consiliari permanenti, ove costituite, aventi funzione di controllo o di garanzia. Ai consiglieri è consentito l’accesso agli atti amministrativi per l’esercizio delle funzioni connesse alla carica, però le loro richieste di accesso non  devono essere generiche ma consentire l’identificazione dei supporti documentali che essi intendono consultare e le richieste di estrazioni di copie possibilmente non devono riferirsi a documentazioni particolarmente voluminose.

 

 

§  4  La funzione degli organi burocratici

 

La funzione degli organi burocratici

Il nuovo testo unico nel riassemblare la normativa degli enti locali ha voluto mantenere una distinzione fra l’ordinamento istituzionale e l’ordinamento finanziario e contabile per meglio permettere l’individuazione delle norme che regolano le singole fattispecie, mentre nell’impostazione della legge n. 142 i due filoni normativi si intrecciavano, pur avendo ricevuto un trattamento separato nello sviluppo normativo di attuazione dei principi. Volendo ora prendere in esame le competenze di ciascun organo burocratico, per individuare le caratteristiche degli stessi si deve porre particolare attenzione all’ intero testo normativo approvato con il d.lgs n. 267.

Prima di porre la nostra attenzione agli organi burocratici che hanno rilevanza strategica nell’ente locale, è opportuno esaminare le forme di lavoro dipendente che possono essere instaurate. L’art. 92 del t.u., accanto alla tradizionale forma di lavoro a tempo indeterminato e da svolgere durante il normale orario di lavoro, prevede l’instaurazione di rapporti di lavoro a tempo determinato o parziale, nel rispetto della disciplina vigente in materia: la norma fa chiaramente riferimento ai principi contenuti nel dllgs n. 29 e nel decreto legislativo 25 febbraio 2000 n. 61 con cui si dà corso ad una direttiva della comunità europea sul lavoro a tempo parziale. Su questo tema precedentemente si era soffermato l’art. 1 della legge 23 dic. 1996 n.662 al comma 56 e seguenti prevedendo in particolare che al personale che instaura un rapporto di lavoro a tempo parziale non si applicano le incompatibilità previste dal d.lgs n. 29 per lo svolgimento  di libere professioni. Il t.u. dà la facoltà ai dipendenti a tempo parziale di prestrarela loro attività anche presso altri enti, purchè autorizzati dall’amminstrazione di competenza e purchè l’incarico presso l’altro ente non concorra a superare l’orario di lavoro previsto dal contratto di lavoro. In merito al lavoro a tempo determinato, la norma fa esplicito richiamo ai comuni interessati da mutamenti demografici stagionali o a particolari manifestazioni anche a carattere periodico: nel disciplinare la materia con il regolamento si può inserire oltre al riferimento ai flussi turistici anche il riferimento ad altre circostanze quali la presenza di attività produttive insistenti sul territorio che necessitano di personale stagionale o di trasfertisti. Al di fuori della normativa sulle assunzioni straordinarie, sempre in materia di lavoro temporaneo si deve ricordare la possibilità di ricorrere al lavoro interinale regolato dalla legge 24 giugno 1997 n. 196.

Nell’esaminare le funzione degli organi politici è già emerso quale ruolo rivestono i dirigenti dell’ente locale; si è rilavato anche che gli organi burocratici pur avendo funzioni distinte da quelle degli organi politici, fra gli stessi esistono diversi momenti di integrazione (un esempio concreto di tali sinergie si individua nella funzione attribuita ai responsabili dei servizi di esprimere un parere di regolarità tecnica su ogni proposta di atto deliberativo, che non sia un atto di indirizzo politico). Ai responsabili dei servizi è stato attribuito l’obbligo dell’ emissione di un parere di regolarità tecnica su ogni proposta di deliberazione (art. 49 comma 1° del t.u.): questo parere, che non ha la connotazione di un provvedimento di controllo, non può prescindere dalle implicazioni di legittimità che sono insite in un parere tecnico, perché la regolarità tecnica equivale al rispetto delle regole che disciplinano astrattamente una materia; la formulazione di un parere si estrinseca in una dichiarazione di conoscenza, che può anche essere disattesa dall’ organo a cui viene prodotta e conseguentemente un parere non è autonomamente idoneo per attestare la regolarità di un atto. Nell’ ipotesi che l’ente non abbia i responsabili dei servizi, il parere va espresso dal segretario dell’ente, in relazione alle sue competenze. Si ritiene che sarebbe stato opportuno, per una maggior trasparenza, che il legislatore, nel normare il processo di formazione degli atti deliberativi, avesse inserito anche la figura del proponente la singola deliberazione, al fine di poter individuare, oltre che il funzionario che confeziona materialmente il singolo atto deliberativo, anche l’amministratore responsabile dello stesso: tale ipotesi comunque può essere fatta propria da ciascun ente nell’ambito della propria potestà regolamentare. La finalità di questi pareri è la verifica della procedibilità dei programmi e dei progetti approvati nel contesto del bilancio di previsione. Il d.lgs n. 267 non apporta innovazioni all’istituto del parere sulle proposte di deliberazioni, che nel corso di dieci anni di nuovo ordinamento ha subito una modificazione di sostanza con la legge n.  127 che ha abrogato la formulazione da parte del segretario dell’ ente del parere di legittimità su ogni proposta di deliberazione.

Si porrà ora la nostra attenzione agli organi burocratici a cui sono state attribuite dal nuovo ordinamento degli enti locali anche una funzione di rappresentanza esterna dell’ ente. Si menziona prioritariamente, data la sua funzione trasversale all’interno dell’ente, la figura del responsabile dei servizi finanziari, forgiata  a suo tempo dal d.lgs n. 77, che ha rivisitato l’ordinamento contabile e finanziario della vecchia legge comunale e provinciale. La figura del ragioniere dell’ente locale viene riformata attribuendo a questo funzionario compiti di verifica degli equilibri del bilancio, che precedentemente erano distribuiti fra più organi. Nella formazione degli atti deliberativi è previsto che il responsabile dei servizi finanziari deve esprimersi in ordine alla regolarità contabile di ogni proposta di deliberazione che implica una spesa o una diminuzione di entrata; inoltre gli è stata attribuita anche la competenza di monitorare tutte le attività dell’ ente al fine di accertarsi che vengano salvaguardati gli equilibri del bilancio.

 

Il segretario

Nella presa di coscienza della propria autonomia, da parte dei sindaci e dei presidenti della provincia era mal accettata la circostanza che la legge n. 142 lasciava inalterata la funzione di vertice burocratico dell’ ente al segretario, la cui nomina restava di competenza prefettizia, e rinviava ad una successiva legge la formulazione di un diverso ordinamento dei segretari comunali e provinciali. Uno degli aspetti più controversi derivava dal fatto che il sindaco o il presidente della provincia non aveva praticamente alcun potere, salvo alcune eccezioni, nella procedura della loro nomina, pur rivestendo il segretario un ruolo rilevante all’ interno dell’ ente locale. Un altro aspetto controverso sulla figura del segretario dell’ ente discendeva dal fatto che la legge n. 142 gli attribuiva la formulazione del parere di legittimità su ogni proposta di deliberazione (funzione attribuita in un momento storico in cui era già testato che un atto può essere legittimo sotto l’aspetto amministrativo, ma al tempo stesso inefficiente ed inefficace sotto l’aspetto funzionale, se non addiritura illegale nel suo aspetto comportamentale). Inoltre la formulazione di detti pareri se non veniva esplicata informalmente, considerando la preesistenza del parere di regolarità tecnica (che già contiene delle implicazioni di legittimità sulla proposta di deliberazione) di fatto veniva a costituire un appesantimento dell’ attività dell’ ente, considerando anche la molteplicità degli atti che all’epoca erano ancora di competenza degli organi deliberanti. A ciò si aggiunga la circostanza che le prime circolari emanate per una uniforme applicazione della legge n. 142 attribuivano nei comuni minori lo svolgimento delle funzioni dirigenziali al segretario dell’ ente,  in quanto unica figura presente all’interno dell’ ente con qualifica direttiva, nonostante che in detti enti veniva riconosciuta 1’esistenza dei responsabili dei servizi. L’attribuzione della formulazione di questi pareri da parte del segretario e dei responsabili di servizio sulle proposte di deliberazione rientra nell’ottica della diminuzione dei controlli esterni sugli atti dell’ ente; con queste norme viene rafforzata la figura del dipendente che è stato investito della funzione di presidiare i principi dell’ordinamento e di garantire la corretta applicazione della norma giuridica. Le varie proposte di un nuovo ordinamento dei segretari comunali e provinciali sono confluite nell’ art. 17 comma 67 e seguenti della legge 15 maggio 1997 n. 127. Questa norma ha confermato al segretario la connotazione di organo essenziale dell’ ente locale ma ha  previsto la sua dipendenza giuridica, per la gestione del loro rapporto di lavoro, da un’apposita agenzia e non da più dal Ministero dell’ Interno; l’ inquadramento funzionale dei segretari nei comuni e nelle province è rimasto quasi inalterato rispetto il passato, ma il loro rapporto con l’ ente locale è stato rinforzato in quanto è stata riconosciuta, in caso di vacanza del titolare della segreteria, al capo dell’ amministrazione la nomina di un nuovo segretario con le regole del D.P.R. 4 dicembre 1997 n. 465 e al neo eletto capo dell’ amministrazione la facoltà di nominare un diverso segretario. Il d.lgs n. 267 nell’armonizzare la normativa sui segretari comunali, omettendo le parole “dirigente o funzionario pubblico” utilizzate nell’art. 17 comma 67 della legge n. 127, ha codificato la tipicità e l’unicità di questa figura lavorativa, che è posta alle dipendenze dell’agenzia e che instaura con l’ente locale un rapporto di servizio.

Il nuovo testo unico all’ art. 97 ha confermato al segretario dell’ ente locale le seguenti funzioni:

a) compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico ‑ amministrativa nei confronti di tutti gli organi dell’ ente in ordine alla conformità dell’ azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti ;

b) partecipazione con funzioni consultive, referenti e di assistenza alle riunioni del consiglio e della giunta e verbalizzazione delle stesse ;

c) rogito di tutti i contratti nei quali 1′ ente è parte ed autentica delle scritture private e di atti unilaterali nell’ interesse dell’ ente;

d) svolgimento di ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti dell’ ente nonché svolgimento di quelle funzioni attribuitegli con motu proprio dal sindaco.

Sono da considerarsi confermate quelle funzioni che il segretario svolgeva in virtù di norme particolari emanate anteriormente alla legge n. 127, qualora non in contrasto con i principi della legge Bassanini. La funzione di assistenza giuridico‑amministrativa nei confronti degli organi dell’ ente (da intendersi ivi comprese le figure apicali dell’ ente), in ordine alla conformità dell’ azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti, attribuita a1 segretario dell’ ente locale ha la medesima valenza di una verifica della legittimità dell’ attività dell’ ente ed è in linea con la necessità di avere all’ interno dell’ ente una figura che attesti la regolarità dell’ azione amministrativa, essendo praticamente venuti meno i controlli esterni di legittimità.

Qualora il capo dell’ amministrazione non abbia provveduto alla nomina del direttore generale, al segretario spetta il compito di sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti (o dei dipendenti con funzioni dirigenziali), e di coordinarne l’ attività: si tratta di un compito qualificato  di alterità che viene affidato dalla legge al segretario, anche se tramite un comportamento omissivo del capo dell’ amministrazione. Il segretarioha quindi un ruolo di raccordo fra organo politico e struttura amministrativa trasformando gli indirizzi politici in direttive di lavoro, ma nei confronti dei dirigenti non ha più una funzione di supremazia gerarchica bensì un rapporto di direzione funzionale; salvo il caso di accertata inerzia del dirigente.

 

I dirigenti

In materia di personale la legge n. 142 è stata oggetto di critiche in quanto sembrava essere stata forgiata solo per i comuni di una certa dimensione perché, quando faceva riferimento al personale apicale dei comuni, poneva la sua attenzione solo ai dirigenti, senza fare alcun riferimento alla circostanza che nella maggioranza dei comuni non erano rinvenibili le figure dirigenziali. Infatti il quadro normativo allora vigente permetteva di annoverare fra il personale dipendente delle figure dirigenziale solo a pochi comuni: dopo ampie discussioni sulla portata della dizione “dirigente” utilizzata nel testo delle legge n. 142, con la legge n. 127 è stato introdotto il principio che, anche negli enti locali che non annoverano nella loro dotazione organica dei dirigenti, i rispettivi capi delle amministrazioni possono conferire le funzioni dirigenziali ai responsabili di uffici e servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale con l’ avvertenza che i dipendenti insigniti delle funzioni dirigenziali devono operare anche essi nell’ambito di indicazioni di massima date dagli organi di direzione politica (art. 109 comma secondo del t.u.). Queste critiche sono state definitivamente rimosse dall’ art. 13 della legge n. 265 che, superando i precedenti vincoli ancestrali sulle qualifiche attribuibili al personale (che male si coniugavano con i principi dell’ autonomia e del federalismo) ha previsto che gli enti locali determinano la propria dotazione organica, nonché 1′ organizzazione e la gestione del personale, con i soli limiti derivanti dalle proprie capacità di bilancio e dalle esigenze di esercizio delle funzioni, dei servizi e dei compiti loro attribuiti. Si deve puntualizzare che il dirigente deve essere una figura progettuale verso l’ amministrazione e inoltre deve agire nell’ ambito di un’ ampia e piena autonomia per il raggiungimento degli obiettivi stabiliti dall’ amministrazione. La riforma ha forgiato una figura del dirigente , o del dipendente incaricato di funzioni dirigenziali che opera con procedure flessibili, che viene responsabilizzato nel raggiungimento degli obiettivi e che viene retribuito anche in funzione dei risultati conseguiti.

Sulla costituzione dei rapporti di lavoro aventi valenza dirigenziale il t.u. all’art. 110 traspone le indicazioni dell’ art. 51 comma sesto e settimo della legge n. 142 nella parte in cui, secondo il regolamento sul personale e sui servizi, prevede rispettivamente il conferimento degli incarichi dirigenziali a tempo determinato con criteri di competenza professionale, sulla base degli obiettivi indicati dal capo dell’amministrazione nel programma amministrativo, e la costituzione con convenzioni a termine di collaborazioni esterne ad alto contenuto professionalee per obiettivi determinati.

. Le funzioni dirigenziali vengono ricodificate dall’art. 107 del d.lgs n.267 e si possono così sintetizzare:

a) dirigere gli uffici ed i servizi loro affidati;

b) svolgere i compiti che impegnano l’ amministrazione verso l’ esterno, non attribuiti agli organi di governo;

c) svolgere i compiti necessari per attuare gli obiettivi ed i programmi definiti dagli organi politici;

d) responsabilità diretta sul raggiungimento degli obiettivi dell’ ente, della correttezza amministrativa e dell’ efficienza della gestione.

L’art. 169 del t.u. prevede l’ affidamento degli obiettivi ai dirigenti, unitamente alle dotazioni necessarie per il loro raggiungimento, esplicitati  dalla giunta nel piano esecutivo di gestione. Al dirigente compete proporre alla giunta le modifiche al PEG che ritiene opportune, anche per esigenze sopravvenute, e l’organo esecutivo le accoglie o le respinge dando adeguata motivazione alla mancata accettazione della proposta (le modificazioni al PEG possono essere apportate fino al 15 dicembre di ciascun anno). Per quanto riguarda la responsabilità dei dirigenti sul raggiungimento degli obiettivi, gli stessi vanno distinti fra obiettivi imposti dall’ amministrazione ed obiettivi negoziati, intendendosi per tali quegli obiettivi che sono stati concordati dal dirigente con l’amministrazione.

Lo statuto può attribuire al capo dell’amministrazione la competenza ad annullare gli atti dei dirigenti o del personale al quale sono state conferite funzioni dirigenziali, che risultano essere illegittimi. Questa potestà attribuita al sindaco e al presidente della provincia è in linea con il principio costituzionale del buon andamento della pubblica amministrazione e discende dal combinato disposto dell’ art. 14 del d.lgs n. 29 che prevede il potere ministeriale di anullamento degli atti illegittimi dei dirigenti, dell’ art. 1 del medesimo d.lgs n. 29 nella parte in cui sancisce che le sue disposizioni  disciplinano l’organizzazione degli uffici di tutte le pubbliche amministrazioni compresi gli enti locali, dell’art 50 comma 10 del d.lgs n. 267 che attribuisce al capo dell’amministrazione la nomina dei responsabili degli uffici e dei servizi e dell’art. 107 comma primo del d.lgs n. 267 che attribuisce agli organi di governo il potere di controllo politico amministrativo. Il regolamento sul funzionamento degli uffici e dei servizi dovrà prevedere le modalità di esercizio di tale potere; in merito si suggerisce di prevedere che tale potere venga attivato su segnalazione del segretario dell’ente, in quanto egli risponde della conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti: per tali finalità egli deve essere messo in grado di conoscere l’attività che svolgono i dirigenti.

 

Il direttore generale

L’ elezione diretta del sindaco e del presidente della provincia ha contribuito ad instaurare criteri di misurazione dell’ attività amministrativa, facendo riferimento anche alla soddisfazione indotta nei cittadini. Conseguentemente il legislatore con la legge n. 127 ha individuato un nuovo organo burocratico che fosse di supporto all’ attività di indirizzo e controllo, a cui è affidato anche il compito di raggiungere gli obiettivi programmati: questa legge ha stabilito che nei comuni con oltre 15.000 abitanti e nelle provincie può essere nominato un direttore generale (ora art 108 del t.u.); il legislatore ha dato la possibilità anche ai piccoli comuni di dotarsi di un direttore generale prevedendo che le citate funzioni possono essere svolte in forma convenzionale fra più comuni la cui popolazione assommata raggiunga i 15.000 abitanti. Le funzioni di direttore generale possono essere conferite dal sindaco o dal presidente della provincia al segretario dell’ ente, qualora non sia stato nominato il direttore o non siano state stipulate le citate convenzioni. Il direttore è la persona che risponde dei risultati dell’ attività dell’ ente, anche se il mancato raggiungimento di uno degli obiettivi prefissati è attribuibile ad altro funzionario. Egli ha una funzione di direzione strategica dei dirigenti, che restano titolari delle funzioni loro attribuite ma vengono da lui organizzati per il raggiungimento degli obiettivi fissati dagli organi politici. Le funzioni tipiche del direttore generale dell’ente locale sono le seguenti:

– attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo;

– predisporre il piano dettagliato degli obiettivi per effettuare il controllo di gestione;

– predispone la proposta di piano esecutivo di gestione;

– sovrintendere alla gestione déll’ ente perseguendo livelli ottimali di efficacia ed efficienza;

– sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e coordinarne la loro attività.

 

Il controllo di gestione

Si evidenzia che, nel contesto della maggior autonomia concessa agli enti locali e della conte-

stuale limitazione dei controlli esterni sulla loro attività, dal legislatore era stata avvertita l’esigenza

di garantire la correta ed economica gestione delle risorse, l’imparzialità ed il buon andamento della

amministrazione locale, nonché la trasparenza dell’azione amministrativa. Su questa falsariga il d.lgs n. 267 al punto b) dell’ art. 147, primo comma, dispone che, nel contesto dei controlli interni che vanno attivati negli enti locali, attraverso il controllo di gestione va verificata l’ efficacia, l’efficienza e l’economicità dell’azione amministrativa. Il d.lgs n. 77 aveva già previsto agli artt. 39,40 e 41 lo svolgimento del controllo di gestione, per cui molti comuni e provincie al momento nell’ entrata in vigore del nuovo testo unico avevano già attivato forme di controllo di gestione: ora gli enti che non avevano ancora istituito il controllo di gestione, aclarando  l’alibi che loro veniva offerto dalla poca chiarezza dell’ art. 20 del d.lgs n. 29 (che aveva indotto diversi enti a confondere il servizio di controllo interno con il nucleo di valutazione), devono adeguarsi a questa forma di controllo della propria attività, in quanto il d.lgs n. 286 ha abrogato il citato art. 20.

Il controllo di gestione è un controllo interno mutuato dai criteri di gestione utilizzati nelle aziende private per verificare le modalità di raggiungimento degli obiettivi programmati e può essere definito come lo strumento necessario per conoscere lo svolgimento di un’attività. La sua introduzione negli enti pubblici si è resa opportuna dopo aver preso coscienza, a seguito degli eclatanti episodi di tangentopoli, che il controllo di legittimità non era sufficiente per garantire l’economicità, l’efficienza e l’efficacia dell’ azione amministrativa. Con il controllo di gestione si verifica: a) lo stato di attuazione degli obiettivi programmatici e il raggiungimento degli obiettivi prefissati, previa analisi delle risorse acquisite e del confronto tra costi e le quantità e la qualità dei servizi erogati; b) 1’operatività dell’ ente anche mediante tempestivi interventi di correzione; c) 1’efficacia, l’efficienza e l’economicità dell’ azione amministrativa al fine di ottimizzare le risorse impiegate. Si deve tenere presente che in una pubblica amministrazione il raggiungimento degli obiettivi non può essere misurato solo secondo le regole del mercato, in quanto nell’ erogazione dei servizi pubblici oltre il risultato economico si deve tenere in considerazione anche il beneficio che ne deriva alla comunità. Per lo svolgimento di questo controllo all’ interno dell’ ente va individuato un soggetto (controller) a cui vanno indirizzati i referti (reports) sullo stato di attuazione dei singoli progetti per coordinare armonicamente l’ attività complessiva dell’ ente. La materia originariamente è stata disciplinata dal d.lgs n. 77 che ha  individuato, con notevole chiarezza, in cosa consiste il controllo di gestione, puntualizzando quali sono gli strumenti contabili da utilizzare, le sequenze delle operazioni che lo connotano ed i riferimenti organizzativi di supporto (norme ora trasfuse negli artt.193 e seguenti del t.u.). Lo strumento di base per 1′ attuazione di questo tipo di controllo è il piano esecutivo di gestione, con cui si assegnano ai funzionari le risorse finanziarie necessarie per il raggiungimento degli obiettivi che vengono a loro assegnati.

Il soggetto preposto all’ esame dei risultati del controllo di gestione si individua nel segretario oppure, ove nominato, nel direttore generale, ma con diversi livelli di responsabilità: infatti al segretario compete solo il coordinamento dell’ attività dei dirigenti, che sono personalmente responsabili del raggiungimento dei risultati loro affidati, mentre il direttore generale è responsabile in solido con i dirigenti nel raggiungimento dei risultati. Si puntualizza che il controllo di gestione può essere finalizzato su particolari obiettivi, anche se è opportuno che abbia per oggetto 1′ intera attività dell’ ente, ma che lo stesso va svolto comunque con continuità per verificare lo stato di attuazione dei singoli progetti (auditing) al fine di poter intervenire con provvedimenti correttivi in corso d’opera. Non si devono quindi confondere con il controllo di gestione quelle rilevazioni, seppur valide, che vengono effettuate su singoli settori di attività e con carattere saltuario, le quali hanno lo scopo di monitorare in un determinato momento una specifica attività dell’ ente. Alcuni modelli di controllo di gestione attribuivano inizialmente al soggetto che lo esercitava anche 1’effettuazione delle verifiche che sono proprie sia della valutazione del personale che del controllo strategico: noi riteniamo che, dati i fini teleologici diversi di ogni tipo di controllo, sia più giusto prevedere che i dati che vengono raccolti con il controllo di gestione vengano separatamente utilizzati dall’ organo che esercita la valutazione del personale e dall’ organo che esercita il controllo strategico. E’ doveroso evidenziare che nelle altre pubbliche amministrazioni il controllo di gestione è stato previsto obbligatoriamente appena nel 1999 con il d.lgs n. 286. Per esercitare il controllo di gestione gli enti locali minori, data la difficoltà di creare degli autonomi servizi, possono dar vita fra di loro ad uffici unici con processi di aggregazione utilizzando lo strumento delle convenzioni.

 

L’evoluzione dei controlli

Nel trattare il precedente argomento si è accertato che l’art. 147 del t.u. indica quali controlli vanno effettuati all’interno dell’ente locale. Si deve tenere in evidenza che i controlli, in qualunque maniera vengono esercitati, devono essere propositivi e non repressivi, anche se talvolta si manifestano con effetti ablatori: pertanto il soggetto titolare del potere di controllo ha l’ obbligo di motivare le sue manifestazioni di volontà o di conoscenza, specie quando l’esito dell’ attività di controllo non sia lapalissiano.  La riforma del sistema dei controlli sull’attività di comuni e province era stata posta come obiettivo principe da diverse forze politiche fin dai primi anni cinquanta, ma il legislatore per motivi di opportunità politica era restio a lasciare agli enti locali quello spazio di autonomia che gli era riconosciuto dalla Costituzione. Infatti, dopo la conclusione di quella crisi economica che aveva prostrato il nostro paese nel dopoguerra e che poteva giustificare un sindacato delle autorità statali nella gestione degli enti locali, era mal accettata una legislazione che imponeva la sottoposizione agli organi di controllo esterni perfino un atto con cui si liquidava il pagamento di una fattura di carburante, dato che la Costituzione acclarava l’autonomia degli enti locali. Inoltre la legge 10 febbraio 1953 n. 62, che prevedeva la costituzione degli organi regionali di controllo in sostituzione delle ancestrali Giunte Provinciali Amministrative operanti presso le Prefetture, è rimasta sulla carta fino al 1970. Il legislatore è intervenuto su questa materia con provvedimenti parziali finche nel 1990, sotto la pressione di quel movimento di opinione, che chiedeva riforme di spessore, sorto dopo la conoscenza degli scandali di tangentopoli, ha messo in cantiere due leggi epocali che hanno riformato la pubblica amministrazione. La legge 8 giugno 1990 n. 142, sul nuovo ordinamento degli enti locali, e la legge 7 agosto 1990 n. 241, che detta nuove norme in materia di procedimenti amministrativi, hanno enunciato diversi principi che sono stati poi recepiti e sviluppati dalla legge delega 23 ottobre 1992 n. 421. In particolare era stata evidenziata l’ opportunità di introdurre procedure di controllo che garantissero in maniera effettiva che l’ azione amministrativa sia svolta, oltre che nei limiti della legittimità, secondo principi economicità, efficacia ed efficienza. Sulla scorta della delega contenuta nella legge n. 421 è stato successivamente emanato il decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29, teso a razionalizzare l’ organizzazione delle amministrazioni pubbliche e a revisionare la disciplina del pubblico impiego,la cui evoluzione normativa ha portato al superamento dei controlli ministeriali sugli atti che prevedono un nuovo organigramma del personale dipendente degli enti locali.

In questo quadro normativo, parallelamente all’ attribuzione di una maggior autonomia agli enti locali, sono stati radicalmente ridotti i controlli esterni e si sono sviluppate norme che prevedendo nuove forme di controllo che garantiscano comunque l’attuazione del principio del buon andamento della pubblica amministrazione. Con queste leggi si attua nella gestione degli enti pubblici un progressivo restringimento dell’ area regolata dal diritto pubblico ed una contestuale evoluzione verso modelli propri della disciplina privatistica. Il quadro normativo che ne è derivato nel corso degli anni, è stato aggiornato a sua volta dalle due leggi “Bassanini” (la legge 15 marzo 1997 n. 59  e la legge 15 maggio 1997 n. 127). Queste leggi hanno dato vita ad un coacervo di diverse fattispecie di controllo interno, che erano quasi sconosciute nella legislazione anteriore agli anni ottanta.

Negli enti locali la normativa sui controlli interni ha avuto una evoluzione di maggiore spessore, rispetto gli altri settori della pubblica amministrazione, in virtù dei principi contenuti nella legge n. 142, principi che nel 1990 erano innovativi non per l’ intero ordinamento giuridico. Ogni amministrazione poteva già allora inserire, negli spazi lasciati liberi dalla legge all’ autonomia locale, quelle norme regolamentari che in materia di controlli interni riteneva opportune: ciò con l’intento di sburocratizzare l’ azione amministrativa, non deregolamentando la materia ma fissando regole più snelle e più consone alla realtà di ciascun ente.

La previsione normativa che l’organizzazione degli uffici e dei servizi sia svolta in conformità a criteri di autonomia, funzionalità ed economicità di gestione e secondo principi di professionalità e responsabilità, implica 1′ adozione  di strumenti di  verifica dell’ attività dell’ ente e dei suoi organi. L’attività dell’ente in base al principio dell’ autonomia può essere analizzata  tramite il controllo di gestione ed il controllo strategico, sui quali la nostra attenzione si è già soffermata; l’attività degli organi politici va invece monitorata da parte degli organi istituzionalmente preposti (consiglio ed elettori) con le verifiche sul raggiungimento dei programmi proposti, mentre quella degli organi burocratici  con la valutazione del personale, sia per quelle con funzioni dirigenziali che per quelle con funzioni esecutive. Il d.lgs n. 267 all’art. 147 richiama i principi sulla valutazione dei dirigenti, facendo riferimento a quanto previsto dal d.lgs n. 29 sul riordino del pubblico impiego, mentre gli strumenti di verifica dell’attività del personale degli enti locali sono stati regolati dai contratti collettivi di lavoro, i cui principi sono fissati dal medesimo decreto 29.

E’ opportuno ricordare che l’art. 20 del d.lgs n. 29 nella sua originaria formulazione introduceva nel nostro ordinamento per tutte le pubbliche amministrazioni i nuclei di valutazione per la verifica dei risultati raggiunti dai dirigenti, posti all’ interno di ogni ente in posizione di autonomia e alle dipendenze degli organi di direzione politica con specifico riferimento alla verifica dei risultati raggiunti. Nel contesto della riforma dell’ ordinamento della Corte dei Conti era stato inserito un articolo nel decreto-legge 15 maggio 1993 n. 143 l’ art. 8 che prevedeva l’ attivazione di controlli interni in tutte le amministrazioni pubbliche con il compito di verificare, mediante valutazioni comparative dei costi e dei rendimenti, la corretta gestione delle risorse pubbliche, l’ imparzialità ed il buon andamento dell’ azione amministrativa. Questo articolo però è stato stralciato nelle successive reiterazioni del decreto, ma i suoi contenuti sono stati trasfusi nelle modifiche apportate all’ art. 20 del d.lgs n. 29  con l’art. 6 del d.lgs n. 470/93, che ha aggiunto la dizione “servizi di controllo interno” in alternativa ai nuclei di valutazione, specificando che questi organi venivano preposti alla verifica, mediante valutazioni comparative dei costi e dei rendimenti, della realizzazione degli obiettivi, della correttezza ed economicità della gestione delle risorse pubbliche, dell’ imparzialità e del buon andamento dell’ azione amministrativa. I compiti così attribuiti a questi organi risultavano estesi da quella che era solo una valutazione dell’ operato del personale dirigenziale, anche ad una valutazione economica della gestione dell’ ente e ad una valutazione sulle modalità di svolgimento della attività amministrativa. L’applicazione di questa norma si è sviluppata in una molteplicità di formule organizzative e di compiti assegnati a questi organi, tali da necessitare una norma che facesse chiarezza della formulazione usata dal legislatore delegato. L’orientamento prevalente della prassi intrapresa aveva delineato il più delle volte degli organi, seppure validi sotto l’ aspetto professionale, con funzioni difformi dall’ intento del legislatore (che voleva attivare una verifica dell’ economicità e del buon andamento nella gestione della pubblica amministrazione nonché una verifica dell’ operato dei dirigenti). Si è constatato infatti che gli uffici per il controllo di gestione o i nuclei di valutazione, ove costituiti,  effettuavano analisi sui costi e benefici dell’ attività amministrativa (funzione tipica del controllo di gestione aziendale) assieme ad una verifica dei risultati ottenuti dal personale apicale (attività prodromica per l’ erogazione dei premi incentivanti) previsti dai contratti di lavoro e ad una analisi sul raggiungimento dei programmi indicati nel bilancio di previsione (indagine utile per monitorare l’ attuazione dei programmi politici). Inoltre si è constatato che in diversi enti a capo del nucleo di valutazione, ove istituito, erano stati posti il segretario dell’ ente o il direttore generale, senza prevedere per questi soggetti un controllo.

La dicotomia che si era creata con la riformulazione dell’ art. 20 del d.lgs n. 29 da parte del d.lgs n. 470 non era sfuggita al legislatore, che già con la legge 24 dicembre 1993 n. 537 all’ art. 1 comma secondo, punto l) aveva delegato il governo a riformare nelle pubbliche amministrazioni la materia dei controlli interni, le verifiche dei risultati e dell’ organizzazione; questa delega, non essendo stata esercitata nei termini previsti, è stata riproposta appena dalla legge n. 59, sulla base della quale è stato emanato il d.lgs n. 286: questo decreto prevede dei controlli distinti per materia e la separazione fra le varie strutture che esercitano  i controlli interni. Si fa presente che se esiste una diversità di funzioni fra le diverse strutture di controllo, è opportuno che esista una distinzione anche fra i componenti delle stesse. Comunque i risultati ottenuti con un tipo di controllo possono essere utilizzati anche da un’ altra struttura, in quanto le varie forme di controllo, per essere efficaci ed efficienti, devono essere esercitate in modo integrato.

Il d.lgs n. 286 ha voluto fare chiarezza a quella  formulazione complessa che veniva usata dall’ art. 20 del d.lgs n. 29 (servizio di controllo interno o nucleo di valutazione) che aveva permesso inizialmente una latitanza  dei controlli di valutazione sull’ operato dei dirigenti o dei responsabili dei servizi incaricati di funzioni dirigenziali. Nella prassi successivamente instauratasi in alcuni casi sono stati preposti alla valutazione del personale dei nuclei di valutazione, formati anche da esperti nominati dalla giunta e scelti fra soggetti non direttamente coinvolti nella gestione dell’ ente (art. 20 comma 4° del d.lgs n. 29 e art. 33 del contratto di lavoro 1995/98), che operativamente vengono supportati dal servizio di controllo interno appositamente individuato all’ interno di ciascun ente (art. 20 comma 3° e 7° del d.lgs n. 29); in altri casi la valutazione del personale è stata attribuita al segretario o al direttore, senza però prevedere alcun controllo sull’ operato di questo dirigente.   Si deve ricordare che il termine dirigente, utilizzato genericamente dalla legge n. 142, ha avuto nel tempo una evoluzione normativa tale da identificarlo nei piccoli comuni nel dipendente preposto ad una unità organizzativa autonoma. Il d.lgs n. 286 all’ art 5 prevede che la valutazione dei dirigenti (o del personale apicale con incarico dirigenziale) va effettuata dal dirigente generale dell’ ente , su proposta dei responsabili dei vari servizi: si ritiene opportuno che negli enti locali, che si devono attenere ai principi del d.lgs n. 286 e non alle sue formulazioni letterali,  la valutazione dei dirigenti vada effettuata da un apposito organo collegiale, che formulerà una valutazione anche sull’ operato dei dirigenti, del segretario generale e del direttore generale.

 

La valutazione del personale

L’ adeguamento degli atti normativi degli enti locali dopo l’ emanazione del nuovo testo unico approvato con d.lgs n. 267 può essere l’occasione per rivisitare il sistema di valutazione del personale dipendente. L’art. 147 di questo decreto infatti nel recepire negli enti locali le disposizioni del d.lgs n. 286 (che ha dettato disposizioni in materia di controllo interno nelle pubbliche amministrazioni), rimette in evidenza le implicazioni che erano derivate dall’abrogazione da parte di questo decreto dell’ art. 20 del d.lgs n.29, che dettava norme sulla valutazione dei dirigenti negli enti locali

Passando all’ esame delle modalità di valutazione del personale, si deve mettere in luce la circostanza che le componenti della retribuzione del personale si distinguono in retribuzione tabellare, retribuzione di posizione e retribuzione di risultato. La retribuzione tabellare viene fissata dal contratto collettivo di lavoro per ciascuna fascia retributiva; la retribuzione di posizione viene individuata da ciascuna amministrazione in base al proprio organigramma entro la forbice retributiva stabilita dal contratto collettivo; la retribuzione di risultato viene fissata da ciascun ente in base al raggiungimento degli obiettivi che sono stati assegnati ai dirigenti.

Per posizione si intende la rilevanza che riveste all’interno dell’ente la singola unità lavorativa con poteri di coordinamento di alcuni servizi, che conseguentemente può assumere un ruolo più o meno strategico nell’organizzazione aziendale. Per determinare il valore delle singole posizioni si deve analizzare che lavoro svolge ogni posizione che si intende valutare e stabilire a priori dei parametri rigidi e oggettivi (quindi indipendentemente dalla persona che occupa quella posizione) per valutare la strategicità della stessa all’ interno dell’ ente ed anche per verificare l’opportunità di differenziare le singole posizioni. La valutazione in questione serve per attribuire l’indennità di posizione ai dirigenti o agli incaricati di funzioni dirigenziali, che hanno un indice di strategicità rilevante all’interno dell’ ente.

La pesatura delle singole posizioni (punteggio attribuibile a ciascuna posizione) può essere effettuata sulla base dei seguenti criteri:

a)      collocazione nella struttura;

b)      composizione dei servizi coordinati;

c)      responsabilità gestionale, che può essere considerata anche sotto l’ aspetto della responsabilità all’interno e all’ esterno dell’ ente.

Fissando un indice di 100 punti da suddividere per ogni criterio con cui si intende valutare la rilevanza delle singole posizioni, si procede quindi a suddividere il punteggio massimo assegnabile per ciascun criterio. Si suggerisce al riguardo la seguente suddivisione:

 

                                     CRITERI PUNTI
Collocazione nella struttura 30
Composizione dei servizi 30
Responsabilità

gestionale

Interna 20
Esterna 20

 

Stabilite le pesature massime da attribuire a ciascun criterio di valutazione, si passa all’ operazione di sintonizzazione, che consiste nella attribuzione del punteggio a ciascuna posizione organizzativa in base ai servizi coordinati (si impotizza un ente suddiviso in tre settori).

 

Sintonizzazione delle posizioni organizzative:

              S e t t o r e            Servizi Collocazione Composizione Responsabilità
 

 

Amministrativo

Contabile

 

 

Segreteria      

 

 
Demografici        
Ragioneria        
Personale        
Tributi        
                     Tot.max.        30        30   20   20
 

 

Servizi alla

Persona

 

 

Istruzione        
Cultura e sport        
Servizi socuali        
Strutture ricettive        
                     Tot.max.        30        30   20   20
 

 

Tecnico

Manutentivo

 

 

Lavori pubblici        
Urbanistica ed edilizia        
Servizi tecnici        
Ambiente        
Vigilanza        
                     Tot.max.        30        30   20   20

 

Dopo aver effettuato la sintonizzazione di ciascuna unità organizzativa, si riepiloga sinteticamente l’attribuzione del punteggio assegnato a ciascuna posizione.

 

             SETTORE                         CRITERI PUNTI    Totale
 

 

 

 

AMMINISTRATIVO

CONTABILE

 

 

 

 

 

Collocazione nella struttura

   
 

Composizione dei servizi

 
 

Responsabilità

gestionale

Interna  
Esterna
 

 

 

SERVIZI ALLA

PERSONA

 

 

 

 

 

 

Collocazione nella struttura

   
 

Composizione dei servizi

 
 

Responsabilità

gestionale

Interna  
Esterna
 

 

 

 

TECNICO

URBANISTICO

 

 

 

 

 

 

Collocazione nella struttura

   
 

Composizione dei servizi

 

 
 

Responsabilità

Gestionele

 

Interna  
Esterna

 

Il secondo elemento variabile della retribuzione del personale è la quota di retribuzione collegata alla valutazione dei risultati. Per effettuare questa anlisi si deve predisporre un sistema di valutazione dei risultati che sia semplice chiaro ed efficace; inoltre questo sistema è opportuno che sia unico per tutti i dipendenti dell’ente, compresi anche i dirigenti. Il sistema che si realizza deve essere facilmente capito dagli amministratori, dai dipendenti e dalle organizzazioni sindacali per essere poi oggetto di contrattazione aziendale. Ogni fascia di lavoratore va comparata con  sei fattori  di valutazione che vengono predeterminati. Il primo fattore di valutazione può essere individuato nei risultati di attuazione del piano esecutivo di gestione  nei  quali vengono maggiormente coinvolti i dipendenti appartenenti alle fascie più qualificate: il PEG è attribuito agli apicali, ma i risultati vanno raggiunti tramite i servizi svolti da tutto il personale e per rendere motivati i dipendenti deve  essere condiviso dagli stessi il raggiungimento dei risultati. Il secondo fattore di valutazione può essere localizzato nell’esperienza espressa nell’attività lavorativa: dato il suo aspetto di praticità nell’esecuzione del lavoro e non di organizzazione del lavoro, questo fattore di valutazione non interessa le figure lavorative più qualificate ma è indispensabile per le altre. Il terzo fattore di valutazione può essere fissato nel comportamento professionale, nell’orientamento ai risultati e nella disponibilità alla sostituzione  dei colleghi: anche questo è un fattore di valutazione che va ad interessare solo i lavoratori inseriti nelle fasce più basse. Il quarto fattore di valutazione interessa invece solo i lavoratori inseriti nelle fasce più alte, in quanto prende in considerazione la capacità di organizzare le risorse, che è richiesta solo in alcune fasce. Il quinto fattore di valutazione interessa tutti i lavoratori, ma maggiormente quelli che hanno compiti organizzativi più importanti in quanto lo stesso analizza la capacità di innovazione, di creatività e di risoluzione dei problemi di ciascun lavoratore. Il sesto fattore della valutazione, che pone attenzione alla puntualità e precisione nello svolgimento della prestazione, interessa invece maggiormente i lavoratori che hanno compiti di materiale esecuzione dei lavori. Naturalmente l’attribuzione dei punteggi per ciascuna fascia e per ciascun fattore va effettuata sulla base delle strategie aziendali.

L’attribuzione di questi punteggi viene proposta dal nucleo di valutazione al Sindaco, il quale decide in merito con la collaborazione della giunta. Il sistema di valutazione, così impostato viene discusso congiuntamente fra il Sindaco, il nucleo di valutazione e la conferenza dei responsabili di settore: la bozza di valutazione con gli eventuali aggiustamenti viene successivamente presentata a tutto il personale dell’ente.

La proposta di sistema di valutazione  va quindi definita nella delegazione trattante e, dopo la stipula della contrattazione decentrata, va approvata dalla Giunta ed applicata dai dirigenti con la collaborazione del nucleo di valutazione.

 

Tabella dei criteri di valutazione

 

                               Fasce  retributive
 Fattori di valutazione A B C D D po Dir  
 Risultati di PEG + + d+ d+ d+  
 Esperienze nel lavoro Æ Æ  
 Orientamento ai risultati e disponibilità alle sostituzioni + + d  – Æ Æ  
Capacità di organizzare le risorse Æ d- + +  
Creatività e capacità di risolvere i problemi + d-   d+ Æ  
 Puntualità e precisione d+ + Æ  
                                                                 Tot. 100 100 100 100 100 100  

 

+      valore alto

–      valore basso

Æ     valore non attribuito perché valore presupposto

d-    valore più basso

d+    valore più alto

 

 

Tabella delle valutazioni di risultato massime attribuibili a ciascuna unità lavorativa,  suddivise per fascie retributive e per fattori di valutazione:

 

                              Fasce retributive
                Fattori di valutazione A B C D D  po Dir
 Risultati di PEG 35 40 40 50 60 60
 Esperienza nel lavoro 10 10 10 10 Æ Æ
 Orientamento ai risultati e disponibilità alle      sostituzioni 15 15 10 6 Æ Æ
 Capacità di organizzare le risorse Æ 4 10 10 20 20
 Creatività e capacità di risolvere i problemi 15 11 18 14 20 20
 Puntualità e precisione 25 20 12 10 10 Æ
                                                                Tot. 100 100 100 100 100 100

 

D po     fascia D con posizione organizzativa

Dir        dirigenza

 

 

§   5  Il processo di aziendalizzazione

 

Il rafforzamento degli organi

L’autonomia degli Enti Locali, esplicandosi nella capacità di darsi delle proprie regole, implica l’esistenza di organi che siano i veri protagonisti delle decisioni prese dall’ente e non dei soggetti a responsabilità limitata. Il nuovo ordinamento degli enti locali ha forgiato dei rappresentanti  dell’ente locale che hanno una propria capacità di  agire che non si riscontra nella precedente legislazione. Il Sindaco e il Presidente della Provincia sono divenuti una figura effettivamente centrale nella conduzione dell’ente, dopo la loro investitura diretta da parte dei cittadini e dopo l’attribuzione  ad essi del potere di nomina della giunta e dei collaboratori più qualificati: il capo dell’amministrazione ha assunto un carisma di amministratore delegato dall’azienda locale con propri poteri di indirizzo. La funzione della giunta,  sfrondata dei compiti amministrativi che riducevano altamente la sua  connotazione di organo politico, ora ha una funzione  analoga al consiglio di amministrazione di una società di capitali. Al Consiglio dell’ente è stata attribuita la funzione di organo di indirizzo dell’attività  dell’azienda ente locale, con poteri di controòòo sull’attività degli amministratori.

Al Segretario dell’ente è stato affidato il compito di consulente degli organi  dell’ente in ordine alla regolarità amministrativa ed una globale funzione notarile nell’interesse dell’ente. Inoltre, su decisione del capo dell’amministrazione, gli può essere attribuita la funzione di direttore dell’ente, con un conseguente suo coinvolgimento diretto nel raggiungimento degli obiettivi strategici fissati dagli organi politici. Ai dirigenti è stata attribuita un’autonomia funzionale nel raggiungimento degli obiettivi aziendali e la rappresentanza esterna dell’ ente nelle materie di loro competenza. La strutturazione dell’organico dell’ente non necessita più delle autorizzazioni ministeriali, ma ha il solo limite del reperimento delle occorrenti risorse finanziarie, e va rivisitata  in modo da creare nel mercato del lavoro un valore esterno alle singole posizioni lavorative che  sia diversa dalla garanzia nel tempo dell’impiego fisso.

Questa assimilazione dell’organizzazione dell’ente locale all’organizzazione di un’azienda economica non deve essere però solo una  nuova tecnica di gestione, ma deve essere l’esternalizzazione di un nuovo tipo di cultura nella gestione dell’ente locale.

 

L’ autonomia finanziaria

La legge n. 142 per rendere l’autonomia una reale capacità di autogestirsi ha riconosciuto a comuni e provincie anche un’autonomia finanziaria nell’ambito del coordinamento della finanza pubblica. Questo principio è stato enunciato in un momento storico in cui la finanza locale era fortemente connotata da un sistema di risorse trasferite, frutto della riforma tributaria del 1970 che aveva accentrato tutto il prelievo tributario nelle mani dello stato. I criteri che allora governavano la finanza locale deresponsabilizzavano gli amministratori: infatti, il prelievo tributario dell’ente locale verso i suoi cittadini era molto limitato, mentre la gran  parte delle  risorse finanziarie  provenivano all’ente da  trasferimenti statali; conseguentemente gli amministratori locali attuavano le loro iniziative senza dover rispondere direttamente ai cittadini sull’ uso delle risorse che venivano loro assegnate dal governo statale. La concretizzazione di una effettiva potestà tributaria ha avuto un decorso quasi decennale poiché il legislatore ha proceduto ad una sua progressiva applicazione, avendo tenuto conto anche della circostanza che, al momento dell’ entrata in vigore della riforma delle autonomie locali, i servizi tributari di comuni e provincie erano in sostanza sguarniti di personale. La revisione dell’ordinamento tributario locale, prevista come principio dall’ art. 54 della legge n. 142 e inclusa nelle finalità indicate dalla legge delega n. 421, è stata avviata dal decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 504, che in particolare disciplina l’imposta comunale sugli immobili e rivisita il sistema dei trasferimenti erariali agli enti locali; la successica legge 21 dicembre 1996 n. 662 integrata e ammoderna il quadro dei tributi locali con le indicazionizioni dell’ art. 3, comma 143 assieme al successivo decreto legislativo di applicazione 15 dicembre 1997 n. 446. Per alcuni tributi che si sostanziano nel pagamento di una prestazione afferta dall’ente locale in regime di privativa (occupazione di arre pubbliche, raccolta-trasporto-smaltimento rifiuti) il legislatore ha previsto la possibilità delle traformazione della tassa in tariffa del servizio. In linea con il principio della separazione delle competenze, l’attuale sistema tributario degli enti locali ha previsto per ogni tributo la figura del funzionario responsabile del procedimento tributario. Sempre per meglio focalizzare le competenze di ciascun organo, il d.lgs n. 267 all’ art. 42, punto f) del secondo comma, ha attribuito alla giunta la competenza alla definizione ed all’adeguamento delle aliquote dei tributi , riservando al consiglio l’istituzione e l’ordinamento dei tributi e la disciplina generale delle tariffe per la fruizione dei beni e dei servizi.

Nel contesto della riforma del sistema tributario globale, la legge 27 luglio 2000 n. 212, che detta disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente, all’art. 1 quarto comma impone anche agli enti locali di adeguare i rispettivi statuti e gli atti regolamentari ai principi previsti da questa legge. Il contribuente da diversi anni ha assunto un ruolo centrale nell’applicazione delle norme tributarie provvedendo direttamente a dichiarare, liquidare e versare le imposte. In presenza del principio dell’autotassazione è sorta la  necessità di rendere le norme tributarie facilmente leggibili e l’azione amministrativa trasparente, efficace e imparziale. I capisaldi della legge n. 212 sono la non retroattività della legge tributaria, il divieto del ricorso al decreto-legge per disporre l’istituzione di nuovi tributi, il rafforzamento del diritto di interpello e l’istituzione del garante del contribuente. Si ritiene che, negli spazi lasciati liberi all’autonomia degli enti locali, le funzioni di garante possano essere attribuite al difensore civico, evitando così al cittadino di dover ricorrere al  garante regionale.

 

 

La programmazione

L’ adozione di criteri aziendalistici nella gestione dell’ ente locale implica il ricorso ad una programmazione degli interventi e 1′ accantonamento dei criteri di improvvisazione che, per la professionalità che viene richiesta agli operatori, non è ammessa neanche in presenza di eventi eccezionali

Il richiamo ad una programmazione pluriennale, che implica una verifica degli equilibri intergenerazionali, era già previsto dall’art. 55 della legge n. 142 che, mutuando una prescrizione dalla legislazione preesistente, ha disposto che il bilancio sia integrato con un bilancio pluriennale avente valenza autorizzatoria (art. 171 del t.u.). L’istituto del bilancio pluriennale, che copra un periodo analogo a quello del bilancio della regione di appartenenza, è stato introdotto nell’ordinamento degli enti locali dal DPR 19.06.1979 n. 421 e nei comuni ha avuto una applicazione progressiva per classi demografiche. Accanto al principio della programmazione pluriennale secondo la durata e gli indirizzi della regione di appartenenza, la programmazione pluriennale si deve attenere anche al programma di mandato, in cui vengono sintetizzate le linee programmatiche relative alle azioni e ai progetti da realizzare nel corso del mandato amministrativo. Relativamente alla programmazione pluriennale, è da tenere in considerazione la circostanza che le previsioni che vengono indicate negli anni successivi a quello di competenza sono condizionate dalle successive leggi finanziarie, per cui gli impegni pluriennali vanno assunti con molta oculatezza. Si fa presente che la predisposizione di un bilancio non significa altro se non la traduzione in termini finanziari di un programma socio‑economico che coinvolge molteplici attori. Questi principi sono stati sviluppati dai  provvedimenti di attuazione del nuovo ordinamento degli enti locali che in particolare  prevede la formulazione di un piano generale di sviluppo dell’ ente nel contesto dei programmi con cui può essere letta la parte spesa del bilancio (art. 165 del t.u.).

Il legislatore ha posto la sua attenzione anche alla programmazione degli investimenti stabilendo che la giunta, nell’approvare il progetto o il piano esecutivo dell’intervento, dà atto che le relative spese trovano allocazione nel bilancio pluriennale dell’esercizio corrente ed assume l’impegno ad inserire nei futuri bilanci pluriennali le spese che derivano dall’intervento, delle quali deve essere redatto un apposito elenco. La redazione di un piano economico-finanziario è richiesta solo per l’approvazione di un progetto di opera pubblica che comporta una spesa superiore al miliardo (art. 201 del t.u.). Per quanto riguarda in particolare la programmazione dei lavori pubblici, la stessa è stata più dettagliatamente disciplinata dall’art. 14 della legge 11 febbraio 1994 n. 109 (la c.d. legge Merloni). La norma prevede che la realizzazione dei lavori pubblici si svolga sulla base di un programma triennale e dei suoi aggiornamenti annuali, che gli enti locali predispongono nel rispetto dei propri documenti programmatici, unitamente all’ elenco dei lavoro da realizzarsi nell’anno di competenza, un elenco in cui sono indicati la temporizzazione dei singoli ed il finanziamento di ciascun intervento.  Il regolamento approvato con il DPR 21.12.1999 n. 554  all’ art 13 ed il successivo decreto ministeriale 21.06.2000, pubblicato nella g.u. n.148 del 27.06.2000, prevedono che l’aggiornamento del programma triennale e l’elenco vengano adottati dalla giunta entro il 30 settembre di ogni anno e pubblicati per 60 giorni: ciascun ente con la potestà regolamentare può prevedere che entro i termini di pubblicazione possono essere presentate sulla bozza di programma osservazioni o proposte da parte dei consiglieri; il consiglio approverà successivamente il programma, esprimendosi sulle osservazioni o sulle proposte, congiuntamente al bilancio di previsione, di cui farà parte integrante. Il programma una volta approvato, viene trasmesso all’osservatorio dei lavoro pubblici, che provvede ad effettuare la sua pubblicità verso chiunque ne abbia  interesse. E’ sottinteso che il programma deve essere redatto in coerenza con il programma di mandato e con il bilancio dell’ente.

Un altro strumento di programmazione degli enti locali è la  relazione previsionale, che deve spaziare sul medesimo arco temporale del bilancio pluriennale. Questa relazione è stata introdotta nell’ ordinamento dall’art. 4 ter, comma terzo del decreto legge 28.02.1983 n.55 convertito con modificazioni nella legge 26.041983 n. 131 ma ha ricevuto una configurazione sistematica solo con il d.lgs n. 77. Questa relazione deve fotografare il contesto socio-economico esistente e comprende una valutazione sui mezzi finanziari a disposizione, oltre ad una disamina sui programmi e sugli eventuali progetti indicati nel bilancio; in particolare i programmi dovranno essere correlati con l’indicazione delle finalità che si intendere raggiungere con le risorse che sono ad essi destinate e con adeguati elementi che dimostrino la coerenza dei programmi con gli strumenti urbanistici. Si rileva che il raggiungimento degli obiettivi deve tenere conto oltre degli aspetti finanziari del bilancio anche dell’efficacia, dell’efficenza e dell’economicità dell’azione amministrativa: conseguentemente il bilancio non va redatto solo con criteri criteri ragioneristici e suoi dati contabili necessitano anche di una lettura per programmi, servizi ed interventi (art. 151, terzo comma, del t.u.).

La programmazione trova la sua esplicitazione nel corso della gestione con il piano esecutivo di gestione, obbligatorio per le provincie e per i comuni con oltre 15.000 abitanti (art. 169 del t.u.): questo strumento gestionale deve fungere da raccordo tra le funzioni di indirizzo politico degli amministratori e quelle dei responsabili dei servizi, per non essere una semplice e formale assegnazione di risorse ai funzionari, ma per configurarsi come una ripartizione di competenze e responsabilità per il raggiungimento degli obiettivi dell’ Amministrazione. La giunta, prima dell’ inizio dell’ esercizio, deve quindi adottare un PEG strutturato in conformità al piano degli obiettivi, che siano attendibili e sufficientemente definiti con il documento di bilancio, che sia coerente con le dotazioni finanziarie stanziate e assegnate: ciò presuppone un coinvolgimento delle strutture fin dalla predisposizione dell’ipotesi di bilancio.

Questi strumenti di programmazione per essere effettivamente utilizzabili nel corso dell’intero esercizio necessitano di essere adeguati sulla base delle novità riscontrate in corso d’opera, altrimenti si rischia di essere in presenza di una discrepanza fra i dati finanziari del bilancio, suscettibili di variazioni che necessitano di indicazioni di massima, e i documenti di programmazione approvati, che vanno rivisitati anche se la variazione oggettiva all’intervento non implica nuove movimentazioni finanziarie. Per rendere effettivamente operativi questi strumenti di programmazione si è passati da un sistema di lavoro per progetti anziché per uffici, con una conseguente conduzione dei programmi sulla base di responsabilità spesso trasversali, individuate anche al di fuori delle tradizionali competenze per servizi. Comunque nel lavoro per progetti non può considerarsi obsoleta la necessità di una azione amministrativa rispettosa della legalità e del principio di imparzialità, in quanto l’ efficacia non può superare gli argini di principi che, nello stato sociale e di diritto, devono essere salvaguardati per evitare gli arbitri e quei comportamenti dettati da finalità individualistiche o meramente corporative, che di certo non giovano alla cura degli interessi generali.

 

L’ organo di revisione

La legge n. 142 nell’articolo 55 e seguenti detta alcune norme di principio innovative in materia di contabilità per gli enti locali, rinviando a successivi strumenti normativi l’ammodernamento dell’ordinamento contabile e finanziario (comma quinto dell’art. 59). In particolare vengono introdotti i principi dell’ecnomicità, dell’ efficienza e della produttività dell’azione amministrativa, ed in questa ottica viene rivisitato l’organo di revisione. Il legislatore, quando ha messo mano alla riforma delle autonomie locali, aveva presenti i principi della legge 26.03.1990 n. 69 con cui si delegava il governo ad attuare le direttive comunitarie n. 78/600 del 1978 e n.83/349 del 1983, che invitavano gli stati membri a rivedere la normativa sulla contabilità delle società di capitali: su questa falsariga sono stati prima innovati i principi in materia di contabilità degli enti locali e poi, alla luce del d.lgs 9.4.1991 n. 127 di attuazione della legge n. 69, predisposto il nuovo ordinamento contabile e finanziario.

Nell’ ottica della trasformazione dell’ente locale in chiave aziendalistica, una delle innovazioni di rilievo del nuovo ordinamento è stata la diversa composizione dell’ organo di revisione. L’organo di revisione previsto dalla precedente normativa risultava inadeguato, anche in relazione alla maggior partecipazione dell’ente locale alle qualità della vita della “città”, per la limitata competenza che gli veniva attribuita dalla legge (i revisori potevamo svolgere il loro compito ispettivo solo nei confronti del conto presentato dal tesoriere e sui documenti ad esso allegati), per la temporaneità della loro funzione (i revisori venivano nominati annualmente, per cui potevano essere non confermati nel corso della legislatura) nonché per la loro scelta all’ interno del consiglio comunale (i revisori venivano nominati fra i consiglieri comunali, senza che fosse loro richiesta una particolare professionalità in materia).Il nuovo organo di revisione, inizialmente regolato dall’art.57 della legge n. 142, è composto da tre professionisti scelti rispettivamente uno tra gli iscritti nel ruolo dei revisori contabili (che funge da presidente), uno tra gli iscritti nell’albo dei dottori commercialisti ed uno tra gli iscritti nel ruolo dei ragionieri; nei comuni aventi una popolazione inferiore a 5.000 abitanti la funzione dell’organo di revisione è affidata ad un solo revisore, scelto tra i professionisti precedentemente elencati. Il testo unico al titolo VII della parte seconda ha riassemblato e armonizzato la normativa preesistente sui revisori degli enti locali, che era stata spalmata fra diverse fonti normative. La scelta del legislatore di inserire nell’ organo di revisione degli enti locali dei professionisti iscritti in albi, che sono ordinariamente chiamati a verificare la gestione di aziende private, ha lo scopo di trasferire negli enti locali i principi di gestione aziendale utilizzati nel settore privato: in base a questa falsariga i revisori avranno un ruolo non secondario quando 1′ ente locale dovrà decidere quale sistema di contabilità economica adottare (art. 232 del t.u.), accanto alle tradizionali rilevazioni finanziarie. I revisori vengono eletti dai consigli comunali e provinciali con voto limitato a due componenti in modo da permettere alla minoranza di esprimere un professionista di sua fiducia. Le loro funzioni sono estese a tutta l’attività finanziaria e contabile della ente, con l’obbligo di riferire al consiglio le eventuali irregolarità riscontrate, anche se la loro relazione sul rendiconto resta il documento più rilevante della loro attività e nel quale essi esprimono rilievi e proposte tese a conseguire una migliore gestione. L’organo di revisione deve formulare un parere-giudizio sulla attendibilità, congruità e coerenza del bilancio preventivo; inoltre deve verificare e valutare la corretta applicazione normativa connessa al patto di stabilità, anche se questo compito sarà meno gravoso nei comuni con meno di 5.000 abitanti. I revisori effettuano verifiche trimestrali sulla situazione di cassa e sulla gestione contabile e contrattuale dell’ente, nonchè prestano una particolare collaborazione con gli organi dell’ ente formulando dei pareri sia sulla proposta di bilancio di previsione che sulle sue successive variazioni. L’ organo di revisione esercita un’attività di vigilanza sulla regolarità contabile e finanziaria dell’ intera gestione dell’ ente, con il compito di riferire al consiglio dell’ ente le eventuali irregolarità che riscontra. Il revisore dovrà agire monitorando l’intera attività dell’ente, individuando i punti critici della gestione e proponendo soluzioni alternative a quelle adottate, qualora queste siano inadatte per il raggiungimento degli obiettivi: questa funzione propositiva si qualificherà in particolare quando il revisore darà il suo apporto collaborativo al consiglio dell’ente nel momento delle scelte strategiche.

 

 

La gestione dei servizi

Un particolare aspetto nel processo di aziendalizzazione delle pubbliche ammmnistrazioniè previsto dall’art. 6 della legge 24.12.1993 n. 547 che impone il divieto del rinnovo tacito dei contratti per forniture di beni e servizi nonché la previsione in tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa di una clausola di revisione periodica del prezzo.

Nella gestione dei servizi pubblici, che hanno per oggetto la produzione di beni o attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali, nonché nella quotidiana gestione amministrativa dell’ ente locale, la legge n. 142 prevede la ricerca di strumenti operativi con cui raggiungere una migliore efficienza, produttività ed economicità. Queste poche parole, codificate dal legislatore del 1990 nel contesto della nuova regolamentazione dell’ organo di revisione, impongono agli enti locali un cambio nelle modalità di gestione, in quanto riconoscono come superato il principio della legittimità degli atti amministrativi come unica pietra di paragone della qualità dei risultati, essendo stato testato che la legittimità di un singolo atto non è condizione sufficiente per assicurare il raggiungimento degli obiettivi approvati dagli organi politici. Ciò implica un’impostazione delle modalità di gestione con criteri aziendalistici, ma con 1’avvertenza che in un ente pubblico va comunque rispettato il principio della legalità dell’ azione amministrativa e che il suo risultato non va valutato solo sotto 1′ aspetto del rendimento economico ma anche considerando l’indice di soddisfazione delle necessità sociali. In questa ottica è da prevedere che non necessariamente ogni funzione o attività, di cui l’ente locale sia titolare, deve essere esercitata dall’ente ma che la stessa può essere svolta anche dai privati e che, di conseguenza, l’ente deve intervenire solo quando i singoli o le loro associazioni non sono in grado da soli di rispondere alle loro esigenze. In questo modo nuovo di gestire la cosa pubblica si dovranno prendere nelle dovuta considerazione le esternalizzazioni delle funzioni amministrative, che si materializzano nell’affidamento a soggetti esterni all’ ente di attività che non prevedono valutazioni soggettive o che hanno valutazioni vincolate e che non necessitano della fissazione né dell’avvio né della conclusione del procedimento (copiatura di verbali, predisposizione degli inventari e delle paghe, pulizie degli uffici e delle arre pubbliche, accertamento dei pagamenti, ecc.) dando così la possibilità all’ ente di riqualificare le proprie risorse di personale per compiti più specializzati. Attivando questa politica si responsabilizzano maggiormente i cittadini che diventano protagonisti della vita pubblica e nel frattempo si decongestiona l’ attività dell’ ente locale. Il novo ordinamento degli enti locali del 1990 ha riservato due articoli alla gestione dei servizi pubblici locali innovando la materia con l’introduzione della figura giuridica dell’istituzione e dando la possibilità agli enti locali di gestire i servizi pubblici anche costituendo società per azioni o responsabilità limitata. L’istituzione  presenta una organizzazione autonoma dall’ ente locale di cui è un organismo strumentale per l’esercizio di servizi sociali, ma a differenza dell’azienda speciale è priva di personalità giuridica e la sua organizzazione è disciplinata dallo statuto e dai regolamenti dell’ ente locale. In merito alla costituzione o alla partecipazione a società il legislatore aveva previsto che, qualora sia opportuna la partecipazione di più soggetti pubblici o privati in relazione alla natura o all’ambito territoriale del servizio che viene svolto, il capitale pubblico locale sia prevalente: la normativa successivamente intervenuta sulla medesima materia (la legge n. 498/ 1992) ha dato la possibilità di costituire società per azioni anche senza il vincolo della proprietà maggioritaria. Il nuovo testo unico ha riassemblato la normativa preesistente all’art. 112 e seguenti, regolando separatamente la trasformazione delle aziende speciali in società per azioni. L’indirizzo che si va consolidando nella gestione dei servizi pubblici è quello di appaltarli sul mercato. La materia della gestione dei servizi pubblici attende una rivisitazione parlamentare da diversi anni, che però stenta a giungere nella sua fase conclusiva. Si ricorda che sulla qualità dei servizi pubblici si è già soffermato l’art. 11 del  d.lgs n. 286 (il decreto sui controlli interni) prevedendo che l’erogazione di questi servizi sia effettuata con modalità che promuovano il miglioramento della qualità e assicurino la tutela dei cittadini e degli utenti nonchè la loro partecipazione, anche nelle forme associative, alle procedure di valutazione e definizione degli standards qualitativi. Con la legge n. 388/2000 all’art. 54 è stata resa possibile la revisione delle tariffe dei servizi anche in corso di esercizio, qualora si sia in presenza di costi di gestione superiori alle previsioni di bilancio.

 

La maggior valutazione del rendiconto

Il nuovo ordinamento ha introdotto, accanto al principio della legittimità dei singoli atti, il principio dell’ efficacia, dell’ efficienza e dell’ economicità dell’ azione amministrativa poiché l’ ente locale, alla pari di ogni azienda, deve adottare nel suo operato criteri che analizzino la qualità dei risultati e non solo attenersi a procedure che gratificano il controllo preventivo di legittimità sui singoli atti, che sono il presupposto delle attività dell’ente. L’assimilazione di questi principi ha spostato 1′ asse del sistema dei controlli dal controllo sugli atti, che viene esercitato da un organo esterno all’ ente, al controllo sui risultati della gestione, che viene esercitato all’ interno dell’ente. Il legislatore del 1990 di conseguenza ha previsto che vengano limitati i controlli preventivi di legittimità sugli atti e che venga effettuata una più approfondita analisi sui risultati consuntivi dell’ azione amministrativa, senza togliere la funzione di documento principe al bilancio di previsione. Il processo di aziendalizzazione comporta che all’ interno dell’ organizzazione amministrativa si dovrà affermare sempre di più una logica di gestione per obiettivi, in alternativa alla tradizionale gestione per compiti. Si devono quindi creare condizioni di maggiore autonomia e responsabilità a tutti i livelli della scala gerarchica. Ciò implicherà il passaggio da una prelazione degli aspetti relativi alla suddivisione delle attività per competenze, ad una maggior attenzione alla definizione delle mansioni e all’analisi procedurale per individuare le condizioni ottimali per il perseguimento degli obiettivi aziendali. Il controllo di conseguenza si dovrà spostare dai meccanismi classici della supervisione gerarchica (controllo tecnico e dei comportamenti) e delle verifiche di controllo formale sugli atti, ad una verifica dei risultati conseguiti rispetto gli obiettivi programmati ed a un’ analisi degli scostamenti fra ciò che si doveva realizzare e ciò che si è raggiunto.

Già la il decreto legge 2 marzo 1989 n. 55 convertito con modificazioni nella legge n. 155 all’art. 4, decimo comma, aveva disposto che per la concessione dei mutui le delegazioni sulle entrate degli enti locali venissero rilasciate sulla base delle risultanze dell’ultimo consuntivo approvato e non più sulla scorta dell’ultimo bilancio di previsione. Succesivamnete la legge n. 142 introduceva all’art. 55 la distinzione del rendiconto in conto del bilancio ed in conto del patrimonio, nonché la prescrizione di una relazione illustrativa della giunta che esprima le valutazioni di efficacia dell’ azione condotta sulla base dei risultati conseguiti in rapporto ai programmi approvati ed ai costi sostenuti. Il nuovo testo unico all’art. 48 ribadisce il compito della giunta di riferire annualmente al consiglio le modalità ed i risultati della propria attività nel corso dell’esercizio trascorso e la suddivisione del rendiconto  in conto del bilancio, in conto economico ed in conto del patrimonio, ribadendo la necessità di affiancare alle tradizionali rilevazioni finanziarie delle rilevazioni di carattere  economico. Si ricorda che nelle aziende economiche, che utilizzano la contabilità economica, il principale documento contabile è  sempre il bilancio di  gestione, ma questo tipo di bilancio registra i riultati dalla gestione appena trascorsa (questo documento nella contabilità finanziaria corrisponde al rendiconto). Inoltre in queste aziede il bilacio di previsione, che comunque viene predisposto, non è documento vincolante per la futura gestione, come avviene invece negli enti locali.

 

 

Il processo di semplificazione

Un altro aspetto dell’aziendalizzazione dell’ente locale s’individua nella semplificazione delle procedure amministrative che sono state attuate nel contesto della legislazione di settore. In materia di semplificazione si ricordano le principali norme introdotte per tutte le pubbliche amministrazioni: dalla legge n. 241 che ha codificato i principi della trasparenza della pubblica amministrazione e della semplificazione degli atti; dal d.lgs n. 29 che, come provvedimento di organizzazione, ha previsto il coordinamento dei sistemi informatici e previsto l’istituzione dell’ufficio per le relazioni con il pubblico; dall’art. 2 comma 15 della legge 24.12.1993 n. 537 che prevede l’assolvimento dell’obbligo di conservazione e di esibizione di documenti per finalità amministrative e probative tramite la conservazione degli stessi su supporto ottico, realizzato con le procedure dettate dall’autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione; dall’art. 23 e seguenti del d.lgs 31.03.1998 n. 112 che ha delineato l’istituzione in ogni comune dell’ufficio unico per le attività produttive; dalla legge 08.03.2000 n. 53 che all’art. 22 e seguenti detta le regole per i tempi delle città.

La legge di riforma delle autonomie locali in più parti ha posto la sua attenzione alla semplificazione dell’attività amministrativa. Si menzionano in particolare le forme di decentramento delle funzioni amministrative previste dagli artt. 16 e 17 del nuovo testo unico che rispettivamente prevedono l’istiuzione, in caso di fusione di comuni, di municipi nei territori delle comunità di origine e l’articolazione del territorio comunale in circoscrizioni di decentramento nei comuni con più di 100.000 abitanti, che è invece facoltativa per gli enti con una popolazione fra i 30.000 e i 100.000 abitanti. Gli articoli dal 30 al 33 del medesimo t.u. prevedono delle forme associative fra enti locali per istituire uffici unici per la gestione di servizi o di funzioni di competenza comunale utilizzando gli istituti delle convenzioni, dei consorzi, delle unioni e dell’esercizio associato di funzioni con la finalità di rendere più efficacie ed economica l’attività amministrativa. Infine si rileva che negli spazi lasciati liberi dalla legge all’autonomia degli enti locali, i medesimi possono trovare forme di semplificazione consistenti nell’ unificazione degli atti regolamentari fra enti geograficamente e socio-economicamente omogenei.

Un particolare modalità di semolificazione dell’amministrazione dell’ ente locale è stata prevista dalla legge n. 142 nell’art. 22 nel riordinare l’istituto dei consorzi fra enti locali: il quarto comma prevede che fra gli stessi enti locali non può essere costituito più di un consorzio. La norma, riproposta dall’ art. 31 del t.u., tende a raggruppare in unico ente la gestione di più servizi, per il cui funzionamento con il vecchio testo unico erano stati costituiti dei separati consorzi per ogni servizio (p.e. gas, acqua e fognature che sono tutti servizi a rete) disperdendo così delle risorse, che possono trovare delle economie di scala unificando la gestione dei diversi servizi in una unica organizzazione, che tenga separatamente contabilizzati i singoli servizi.

La legge n. 142 all’art. 27 ha indicato lo strumento della stipulazione di un accordo di programma per la definizione e l’attuazione di opere, di interventi o di programmi di intervento che richiedono, per la loro completa attuazione, l’azione integrata di comuni, di provincie e regioni, di amministrazioni statali e di altri soggetti pubblici. L’istituto dell’accordo di programma è fatto proprio nella sua sostanza dall’art. 14 e seguenti della legge n. 241 e dall’art. 34 del t.u., ma si deve rimarcare che sull’istituto dall’accordo fra più enti pubblici, per risolvere un intervento che coinvolge più soggetti, la primogenitura spetta alla legge n. 142.

Il nuovo ordinamento ha avuto il pregio di ridurre sensibilmente il numero degli atti emanati dalla giunta e dal consiglio che vanno sottoposti al controllo preventivo di legittimità (artt. 45e 46 della legge n. 142); il nuovo testo unico agli articoli 126 e 127 ha ulteriormente ridotto il numero degli atti che debbono essere sotttoposti all’esame del Co.Re.Co. Il legislatore, parallelamente attribuzione di questa maggior autonomia data agli locali, per garantire che l’attività di questi enti sia comunque esercitata secondo i principi del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione, ha previsto la possibiltà di introdurre in detti enti diverse fattispecie di controllo interno, alcune delle quali erano quasi sconosciute nella legislazione anteriore agli anni ottanta. L’operatore dell’ente locale, libero dai vincoli pesanti dei controlli esterni, talvolta sordi alle necessità dell’ente, potrà ora viaggiare con maggior serenità nel raggiungimento degli obiettivi.

L’art 96 del d.lgs n. 267 ha riproposto i contenuti dell’art. 41, primo comma, della legge 27.12.1997 n. 449 che dava la facoltà a tutte le amministrazioni pubbliche di ridurre, entro sei mesi dall’inizio di ogni esercizio finanziario, gli organi collegiali operanti al loro interno che non si ritengono indispensabili: la sua inserzione nel testo unico degli enti locali vuole rimuovere quelle obiezioni che le attribuivano solo una valenza ministeriale. La norma, prevedendo che vengono attribuite all’ufficio che riveste preminente competenza le funzioni anteriormente esercitate dall’organo soppresso, è chiaramente finalizzata a conseguire risparmi di spesa e recuperi di efficienza nei tempi dei procedimenti amministrativi. Si deve fare attenzione alla circostanza che la fattispecie normativa prevede l’assunzione di un provvedimento che espliciti quali organi si ritengono indispensabili: ne consegue che in caso di mancata assunzione nei termini previsti di un provvedimento di conferma degli organi collegiali costituiti, gli stessi si devono ritenere decaduti ipso iure. 

Con la facoltà concessa agli enti locali di incassare direttamente le proprie entrate tributarie senza dover rocorrere ad intermediari, gli enti hanno ora la possibilità di conoscere subito quanto il contribuente ha versato, mentre con il regime della concessione alla riscossione del tributo il tempo della versamento nelle proprie casse aveva dei margini temporali maggiori.

Con la legge finanziaria per il 2001 (la n. 388 del 2000) al comma undicesimo dell’ art. 66 le provincie ed  i comuni fino a 10.000 abitanti sono stati autorizzati ad una uscita progessiva dal sistema di tesoreria unica, introdotto dalla legge 29.10.1984 n. 720: questi enti si vedono così semplificare le modalità e gli strumenti di azione per gestire la propria liquidità. Sulla medesima materia era già intervenuta a favore degli enti minori la legislazione di qualche regione a statuto speciale.

Da quanto esposto si deduce che il processo di riforma avviato dalla legge n. 142 ha trasformato l’ ente locale, da un apparato burocratico che eroga servizi standardizzati, in un sistema integrato di funzioni che producono, con criteri aziendali, attività adeguate alle necessità del cittadino.. Inoltre nel quadro normativo che emerge dal nuovo testo unico i comuni e le province vengono configurati come l’ ente che è in grado di incidere sulla qualità  e sulla vivibilità del proprio territorio, senza dover dipendere dalle decisioni che vengono adottate da altre autorità. Conseguentemente l’applicazione dei principi previsti da questa riforma non deve essere sentita come l’adempimento di una formalità, ma deve essere vissuta come una modifica culturale dei comportamenti

 

 

 

 

Indice- Sommario

 

§ 1  La legge sulle autonomie locali

 

 

introduzione                                                                                            1

significato della potestà statutaria                                                           2

gli enti locali di dimensioni ridotte                                                         3

 

§ 2  Nuovo ruolo del cittadino

 

il cittadino                                                                                               5

la trasparenza                                                                                   6

 

§ 3 La centralità del capo dell’ amministrazione

 

la funzione di indirizzo e la funzione di gestione                                   8

il capo dell’ amministrazione                                                                  9

la giunta                                                                                                   9

la valutazione e il controllo strategico                                                   10

il consiglio                                                                                             11

 

§ 4 La funzione degli organi burocratici

 

la funzione degli organi burocratici                                                       12

il segretario                                                                                            13

i dirigenti                                                                                                14

il direttore generale                                                                                16

il controllo di gestione                                                                           16

l’evoluzione dei controlli                                                                        17

la valutazione del personale                                                                   20

 

§ 5 Il processo di aziendalizzazione

 

il rafforzamento degli organi                                                                 24

l’autonomia finanziaria                                                                          25

la programmazione                                                                                26

l’organo di revisione                                                                             27

la gestione dei servizi                                                                            28

la maggior valutazione del rendiconto                                                  29

il processo di semplificazione                                                               30

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