Gli usi civici una voce del patrimonio degli enti locali.

II disegno di legge collegato alla finanziaria del 1997 approvato dal Consiglio dei ministri il 27 settembre u.s. porta il nostro interesse verso l’istituto degli usi civici: l’articolo 44 del disegno di legge, fra le varie disposizioni che introduce, dispone nel settimo comma che vengano soppressi i Commissariati agli usi civici istituiti con il regio decreto 16 giugno 1927, n. 1766, e che le relative competenze sono trasferite, in attesa del riordino generale della materia, ai Tribunali territorialmente competenti. La norma pro posta va letta nell’ottica della vecchia legge sulla abolizione del contenzioso amministrativo approvata con regio decreto 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E, che all’articolo 1 enuncia l’abolizione dei Tribunali speciali e l’attribuzione delle rispettive competenze alla giurisdizione ordinaria o all’autorità amministrativa e al l’articolo 2 attribuisce alla giurisdizione ordinaria le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile, comunque vi possa es sere interessata la pubblica amministrazione: la devoluzione della materia ai tribunali, sopra enunciata, dimostra che l’uso civico è un diritto sostanzialmente civile. La proposta evidenzia la necessità della rivisitazione di un istituto giuridico che trova la sua origine in antiche usanze (qualche autore le fa risalire anche ai tempi delle colonizzazioni romane) che hanno trovato una composizione legislativa dopo il completamento dell’unità della nostra nazione; se è intenzione trasferire le competenze ai singoli Tribunali esistenti su tutto il territorio nazionale, il trasferimento dovrà essere preceduto da una accurata verifica degli archivi dei singoli Commissariati che non potrà essere esitata in tempi brevi. La proposta però nel successivo iter parlamentare del disegno di legge è stata accantonata perché la stessa comporta il decentramento degli uffici regionali che sono di supporto ai Commissariati ed il conseguente potenziamento delle cancellerie civili dei Tribunali, cose queste che per poter essere attuate necessitano della predisposizione delle strutture adatte che naturalmente non possono essere realizzate in tempi ristretti.

Nel medesimo periodo in cui è stato presentato il disegno di legge sopra richiamato, la presidenza della Giunta regionale del Friuli-Venezia Giulia ha emanato la circolare n. 8 del 7 ottobre 1996 in materia di usi civici: in questa circolare si rammenta a tutte le amministrazioni pubbliche di quella Regione che le alienazioni dei beni di uso civico, anche se conseguenti alla realizzazione di opere pubbliche o di interesse pubblico, devono essere precedute dal parere favorevole del Commissariato regionale per la liquidazione degli usi civici e dalla successiva autorizzazione alla vendita da parte della Giunta regionale, pena la nullità degli atti traslativi di detti beni. Questa circolare è stata emanata in conseguenza di alcuni procedimenti contenziosi che si erano verificati in materia di usi civici in quella Regione.

Per recepire nella loro interezza le implicazioni della proposta di legge è opportuno riesaminare la nozione di uso civico. Questo istituto giuridico trova la sua origine nella organizzazione feudale in cui i feudatari concedevano l’utilizzo dei terreni di loro sovranità ai vassalli per soddisfare le necessità primarie della loro vita; di conseguenza l’istituto ha avuto una regolamentazione a livello lo cale sedimentatasi nei tempi che non trova una univoca regolamentazione. Cessata l’era feudale i Comuni subentrarono in questi diritti dei feudatari e si costituirono dei demani comunali il cui godimento fu riservato agli abitanti del Comune, che spettando ad essi quali cittadini del Comune vennero denominati “usi civici”. La dizione “usi” utilizzata per qualificare questo istituto, che è stato specificato con l’aggettivazione “civici” (la cui etimologia va ricercata nei cives che sono i destinatati del diritto di cui trattasi), è stata utilizzata dal nostro legislatore in quanto le disposizioni sulla legge in generale comprendono fra le fonti di cognizione del diritto an che gli usi; il legislatore nella fattispecie ha elevato alla valenza di norma giuridica positiva un comportamento che si ripeteva costantemente nel tempo (le modalità di uso di un bene pubblico) ed a cui veniva riconosciuta validità dalla generalità dei cittadini. Questi diritti attribuiscono ai frazionisti la facoltà di effettuare su detti terreni il pascolo, la semina, la caccia, la raccolta della legna, la raccolta dei prodotti del sottobosco ecc. Il godimento sia collettivo che singolo di questi terreni, come detto, ebbe diversa regolamentazione da posto a posto avendo però una matrice comune nella distinzione fra usi di carattere essenziale, ovvero necessari alla vita della famiglia (raccolta di legna, pascolo, semina, pesca, ecc), e usi con carattere di “industrie” (utilizzo dei boschi, di derivazioni d’acqua, ecc). Particolari usi civici sono vigenti nelle lagune venete dove la facoltà di utilizzo del bene collettivo riguarda il diritto di pesca e di uso delle terre emerse nelle lagune.

La competenza a giudicare in materia di usi civici è stata attribuita dal legislatore post-unitario ad un giudice speciale, il commissario agli usi civici. Agli uffici dei commissari è stato demandato il compito di accertare l’esistenza dei demani civici e di procedere alla loro liquidazione. Considerando le peculiarità esistenti nelle diverse aree geografiche della nostra nazione i Commissariati furono costituiti su circoscrizioni di aree storicamente omogenee.

Quando si parla di usi civici si fa riferimento in genere a dei beni immobili di proprietà pubblica che sono oggetto di diritti di godimento collettivi. Fra i beni soggetti a diritti collettivi si distinguono quelli che vengono assegnati a singoli cittadini da quelli che vengono usufruiti dalla comunità indistinta di cittadini (da alcuni autori questi ultimi vengono definiti usi demaniali). I beni appartenenti alla prima categoria sono alienabili, anche prima dell’affrancazione dell’eventuale canone livellano, data la natura essenzialmente privatistica di quest’ultimo; in questo caso l’alienazione non riguarderà la piena proprietà, ma la nuda proprietà pesandovi il gravame del livello che il cessionario potrà comunque affrancare in ogni tempo (il livello è il contratto agrario di godimento duraturo di un terreno agricolo con l’obbligo di pagare periodicamente un canone fisso). I beni civici appartenenti al “demanio”, che vengono destinati ad un uso collettivo da parte dei cittadini ivi resi denti, invece non sono alienabili. L’uso civico si può di conseguenza definire come la servitù di utilizzo di un bene a favore della comunità indistinta dei cittadini residenti nella località ove è ubicato il bene; titolari di questi diritti di uso civico sono gli abitanti che vivono nell’ambito territoriale in ragione dei quali risulta desti nato l’uso del bene e definiti frazionisti in quanto solitamente agli abitanti di una località, separata dal capoluogo (frazione), veniva attribuito il diritto di fruire dei frutti di alcune terre viciniori alle loro abitazioni per i loro scopi vitali. Vi sono anche delle fattispecie in cui il diritto di uso civico viene esercitato su terreni di proprietà privata i quali sono gravati da questo peso che deriva, il più delle volte, da antichi privilegi concessi dai feudatari su alcune loro terre agli abitanti del feudo.

L’uso civico essendo un diritto a favore della comunità indi stinta dei cittadini (erga omnes) ha un carattere demaniale, per cui ad esso si applica il relativo regime di inalienabilità, inusucapibilità e imprescrittibilità; ne deriva che negli atti di disposizione degli usi civici gli istituti di diritto civile vengono presi in considerazione solo per analogia. Da questa caratteristica discende che se un atto ha per oggetto un bene soggetto ad uso civico, esso produce i suoi effetti a meno che non venga impugnato se le modalità di cessione o l’uso cui viene adibito siano contrari alla normativa sulla liquida zione degli usi civici. La presenza di usi civici su un terreno oggetto di espropriazione ha una valenza tale da incidere negativa mente sul procedimento di espropriazione; in altri termini, nel passato si attribuiva maggiore rilevanza al godimento collettivo agro-silvo-pastorale di un bene rispetto alla pubblica utilità di altra natura e conseguentemente si subordinava il potere ablativo ad un atto formale di sclassificazione. Ultimamente però l’articolo 12 della legge 31 gennaio 1994, n. 97, che detta nuove disposizioni per le zone montane, affievolisce questa priorità prevedendo che nei Comuni montani i decreti di espropriazione per opere pubbliche o di pubblica utilità determinano la cessazione degli usi civici, eventualmente gravanti sui beni oggetto di esproprio, trasferendo i diritti civici sull’indennità di esproprio e sostituendo il provvedi mento commissariale di sclassificazione del terreno con l’autorizzazione all’esproprio. Anche se il possesso di questi beni non può costituire titolo per acquisire la proprietà, nei rapporti tra privati è concessa ugualmente l’azione di spoglio e di manutenzione nei confronti dei beni comunali soggetti al regime degli usi civici se utilizzati da determinati cittadini.

Dopo il completamento dell’unificazione della nostra nazione con il regio decreto-legge 22 maggio 1924, n. 751, venne proposto il riordino degli usi civici che trovò una composizione organica nella legge di conversione 16 giugno 1927, n. 1766, e nel successivo regolamento di attuazione approvato con regio decreto 26 febbraio 1928, n. 332. Lo scopo primario della legge sul riordino era quello di accertare e liquidare gli usi civici cedendo i relativi ter reni agli aventi diritto e trasferendo i beni indivisibili nel patrimonio dei Comuni; i ricavati delle vendite e della gestione dei beni in divisibili devono essere riutilizzati nell’esecuzione di opere di interesse generale per la sola comunità a cui appartengo i diritti di uso civico. In esecuzione della legge n. 1766 vennero attivate le Commissioni regionali per la liquidazione degli usi civici, le quali hanno il compito di promuovere l’accertamento dei beni soggetti ad uso civico esistenti in ciascun Comune, nonché potestà giurisdizionale in materia. I commissari che sovrintendono alle operazioni di accertamento e liquidazione degli usi civici vengono scelti fra i magistrati di grado non inferiore a quello di consigliere di Corte d’Appello. Per lo svolgimento di queste operazioni viene incaricato un perito il quale ha il compito di procedere alla rilevazione dei beni in questione, alla loro valutazione ed all’individuazione degli eventuali occupanti, anche con prove testimoniali, per proporre al commissario sulla base della perizia predisposta la legittimazione dell’occupazione del terreno che consiste nell’affidamento in concessione perpetua all’occupatore abusivo di un terreno appartenente alla comunità dietro la corresponsione di un canone ma con l’obbligo di apportarvi delle migliorie. I terreni dati in concessione enfiteutica potranno successivamente essere affrancati dal diritto d i uso civico, e quindi entrare a far parte della sfera patrimoniale dell’occupatore, dietro pagamento del canone capitalizzato e previa dimostrazione di avere effettuato delle migliorie al terreno. La cognizione dei reclami contro le decisioni dei commissari sulle questioni concernenti l’esistenza, la natura e la rivendicazione del possesso dei terreni soggetti al peso degli usi civici è attribuita alla Corte d’Appello. Una volta emanato l’atto commissariale di legittimazione o di affrancazione la Regione autorizza il Comune in cui è sito il bene specifico a sottoscrivere l’atto di concessione ed a gestire i relativi proventi a favore della comunità nel cui ambito è ubicato il bene soggetto ad uso civico. La regolarizzazione di queste occupazioni si può effettuare anche con un contratto di compravendita fra Comune ed occupatore, previo nulla-osta del Commissariato alla liberalizzazione del terreno dalla servitù di uso civico e successiva autorizzazione regionale alla vendita; con questa autorizzazione però il Comune viene obbligato a destinare il ricavato della vendita per opere di interesse generale della frazione nel cui favore sussiste l’uso civico.

Alcune procedure di liquidazione per difficoltà di concordare tutte le concessioni non hanno avuto regolare conclusione e così si è verificato che singoli terreni continuano ad essere utilizzati uti dominus da cittadini senza averne il titolo, definiti occupatoli abusivi. Al riguardo in qualche località è accaduto che, a seguito dell’istruttoria di ricognizione degli usi civici, veniva depositato dal perito all’Ufficio del Catasto fondiario il relativo piano di frazionamento in cui erano evidenziati i singoli appezzamenti “usurpati” con a fianco indicato il nominativo degli occupanti la terra senza titolo; senonché alcuni occupatori si opposero all’istruttoria peritale e di conseguenza il commissario agli usi civici non omologò la proposta di ripartizione dei beni: non fu quindi possibile l’emanazione del provvedimento che autorizzasse le singole assegnazioni ai frazionisti; l’Ufficio del Catasto diede ugualmente corso al piano di frazionamento ed i fogli di possesso dei beni usurpati vennero intestati in ragione dei rispettivi occupatori, ma la proprietà dei terreni all’ufficio della conservatoria immobiliare rimase a nome della comunità dei frazionisti, mancando il titolo (il decreto commissariale di liquidazione) con cui viene trasferita la proprietà del bene.

Per consentire una autonomia nella gestione degli usi civici da parte dei diretti interessati la legge 17 aprile 1957, n. 278 ha previsto che all’amministrazione separata dei beni di proprietà collettiva degli abitanti nel territorio frazionale provveda un comitato di cinque membri eletto, nel proprio seno, dai cittadini residenti nella frazione. Questa legge ha innovato le disposizioni del testo unico sulla legge comunale e provinciale del 1934 che all’art. 84, terzo comma, disponeva che l’amministrazione dei beni di riconosciuta proprietà collettiva poteva essere affidata dal prefetto ad un commissario scelto di regola fra i frazionisti. Una gestione separata dei beni di uso comune era in atto fin dai tempi remoti ed al riguardo si riporta l’esperienza vissuta dallo scrivente che in un paese di montagna, rimasto abbastanza inalterato nel tempo, aveva rinvenuto delle pietre di antica squadratura poste ai margini di una piazzetta che dagli abitanti del posto venivano chiamate “vicinie”; da ricerche effettuate negli archivi è emerso che nel passato, presso queste rudimentali panchine, si radunavano i maggiorenti della zona (vicinato) per tenere i loro consigli di valle.

L’articolo 66 del d.P.R. n. 616/77, nel trasferire dal Ministero dell’agricoltura alle Regioni la competenza al rilascio delle autorizzazioni, sull’utilizzo dei beni civici, aveva confermato comunque al commissario per la liquidazione degli usi civici la vigilanza sull’utilizzo dei beni soggetti ad uso civico e sul ricavato dalla loro rivendita; il trasferimento delle competenze nelle Regioni a statuto speciale era avvenuto con la legge costituzionale che approvava lo statuto della singola Regione. L’attribuzione di una competenza legislativa alle Regioni in materia di usi civici deve ricercarsi nella necessità di rimediare alla artificiosa unitarietà di disciplina giuridica di tutti gli usi civici prevista dalla legge n. 1766, dato che l’istituto ha avuto origini e svolgimenti localmente differenti perché sono riconducibili a tenaci consuetudini e tradizioni che trovano le loro radici più estreme in abitudini di antica origine.

Il legislatore si è premurato in più circostanze di salvaguardare le aree interessate ad uso civico da un loro scriteriato utilizzo. Si ricordi in particolare il decreto Galasso del 21 settembre 1984 che ha incluso le zone gravate da usi civici negli elenchi delle bellezze naturali e d’insieme sottoposte a vincolo paesistico ai sensi della legge 29 giugno 1939, n. 1497. Successivamente, con la legge 28 febbraio 1985, n. 47 sul condono edilizio sono state previste norme tese a salvaguardare la destinazione ad uso promiscuo delle aree gravate dal peso degli usi civici. I Comuni nel predisporre gli statuti comunali previsti dall’arti colo 4 della legge 8 giugno 1990, n. 142 hanno potuto inserire apposite norme per integrare autonomamente a livello locale la materia degli usi civici.

Infatti uno dei pregi di questa legge è superare l’appiattimento giuridico dei Comuni operato dalla legislazione previgente prevedendo negli statuti la regolamentazione di particolari istituti che caratterizzano le peculiarità di ciascun Comune. Nel contesto del nuovo ordinamento finanziario e contabile degli enti locali, approvato con il d.lgs. 25 febbraio 1995, n. 77 non vengono menzionati gli usi civici ma viene prescritto l’aggiornamento degli inventari degli enti locali entro il 31 dicembre 1996; in questo contesto gli enti dovranno porre particolare interesse allo stato di fruizione dei beni immobili non strumentali per l’attività d’istituto eventualmente soggetti ad uso collettivo ed il cui utilizzo dovrà essere disciplinato nel regolamento di contabilità.

La materia, anche se interessa principalmente i Comuni con vocazione rurale, necessita di un aggiornamento legislativo: infatti la legge n. 1766 è da considerarsi in parte superata dalla realtà in quanto negli anni della ripresa dalla crisi economica, conseguente al secondo conflitto mondiale, diversi patrimoni collettivi, che erano periferici ai vecchi centri urbani e che originariamente avevano destinazione agro-pastorale, sono stati utilizzati per fini abitativi o per attività produttive: evidentemente siamo in presenza di diritti non statici nel tempo se i cives hanno utilizzato anche in tempi recenti i terreni già soggetti ad uso collettivo sempre per esigenze primarie ed essenziali al sostentamento delle persone, quali l’abitazione o lo svolgimento di un’attività diversa da quella. La legge comunque ha comportato una rilevante utilità sociale in quanto, in diverse circostanze, ha salvaguardato dal frazionamento o da un insensato uso diversi patrimoni collettivi, specie nelle zone montane.

È opportuno che l’ente locale, in attesa del riordino legislativo, recuperi il suo ruolo di primo garante dei patrimoni collettivi che troppo spesso non hanno ricevuto la dovuta tutela per noncuranza, e talvolta per ignoranza, delle autorità locali. Nel contesto di questa riforma legislativa si ritiene che, in considerazione delle peculiarità locali che sono insite negli usi civici, venga attribuita alle Regioni in questa materia una potestà legislativa di carattere concorrente e che siano demandate ai Comuni le funzioni che non richiedono un esercizio unitario a livello regionale.

di Osvaldo de Castro

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