Con la presente memoria l’Autore mette in evidenza le caratteristiche di alcune innovazioni apportate all’ordinamento degli enti locali dalla legge n. 142, la cui analisi più dettagliata implicherebbe, peraltro, uno studio di maggior ampiezza: riteniamo trattarsi di un bilancio che può utilmente inserirsi nel più ampio programma di commenti ni nuovo testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali 18 agosto 2000, n. 267, al quale stiamo dedicando il meritato spazio.
Essendo trascorsi 10 anni dall’entrata in vigore dell’ordinamento degli enti lo cali si rende opportuno formulare una riflessione su cosa è cambiato principalmente nel funzionamento di questi enti, che sul territorio nazionale sono l’organizzazione pubblica direttamente a contatto con i cittadini.
Si deve ricordare che, nonostante le autorevoli proposte di legge presentate in Parlamento, la rivisitazione della normati va di settore è stata approvata con quasi venti anni di ritardo rispetto all’ordinamento regionale: questo è un ritardo colpevole poiché ha dimostrato la poca sensibilità del legislatore alle esigenze autonomistiche degli enti locali, che, dopo l’entrata in funzione delle regioni, si trovavano a confronto con un centralismo regionale che si stava progressivamente sostituendo a quello statale.
Con la legge 8 giugno 1990, n. 142, che disciplina l’ordinamento degli enti locali, è stato positivato il paradigma normativo che i comuni e le province hanno un loro statuto nell’ambito dei principi fissati dalle leggi, che costituiscono un limite inderogabile alla loro autonomia normativa.
La legge n. 142 ha reso finalmente una proposizione forte l’autonomia degli enti locali che sono diventati realmente dei centri autonomi di responsabilità, mentre precedentemente la loro autonomia era solo un principio astrattamente previsto dalla nostra Costituzione.
Lo statuto rappresenta lo strumento giuridico con cui si supera quell’appiattimento giuridico di tutti gli enti locali che era insito nel precedente ordinamento: con esso, infatti, ogni Ente può codificare le proprie caratteristiche e definire meglio la propria posizione sul territorio. Nella gerarchia delle fonti normative allo statuto viene riconosciuta una particolare posizione, in quanto, pur essendo un atto regolamentare, la legge gli ha attribuito una capacità abrogativa nei confronti delle precedenti norme di settore. Con questa potestà normativa attribuita a comuni e province, il legislatore ha voluto dare ad ogni Ente la possibilità di forgiarsi un corpo normativo consono alle proprie esigenze.
Lo statuto specifica le attribuzioni degli organi, le forme di garanzia e di partecipazione delle minoranze all’attività politico-amministrativa dell’Ente locale, l’ordinamento degli uffici e dei servizi; inoltre deve prevedere le forme di collaborazione fra enti locali, di partecipazione popolare, del decentramento, dell’accesso dei cittadini alle informazioni e ai procedimenti amministrativi.
Con l’entrata in vigore della legge 3 agosto 1999, n. 265, contenente principi aventi la medesima valenza di quelli contenuti nella legge n. 142, vengono abrogate automaticamente le norme statutarie e regolamentari che sono incompatibili con i contenuti della nuova legge, senza avere più la necessità di procedere alle rettifiche della normativa locale.
La legge n. 142 ha riconosciuto ai comuni e alle province anche un’autonomia finanziaria nell’ambito del coordinamento della finanza pubblica. Questo principio, basilare per rendere effettiva l’autonomia, è stato enunciato in un momento storico in cui la finanza locale era ancora fortemente connotata da un sistema di risorse trasferite, frutto della riforma tributaria del 1970 che aveva accentrato tutto il prelievo tributario nelle mani dello Stato; i criteri che allora governavano la finanza locale deresponsabilizzavano gli amministratori degli enti locali, che procedevano con le loro iniziative senza dover rispondere direttamente ai cittadini sull’uso delle risorse che venivano loro assegnate dal governo statale.
Per una verifica dei comportamenti degli enti locali, il legislatore aveva attivato, come previsto dall’art. 100 della Costituzione per tutti gli enti ai quali lo Stato versa contribuzioni in via ordinaria, la Sezione enti locali della Corte dei conti, che ha il compito di riferire annualmente al Parlamento i risultati delle sue indagini sulle modalità di gestione degli enti locali. La concretizzazione di una reale potestà tributaria ha avuto un decorso quasi decennale poiché il legislatore ha proceduto ad una sua progressiva applicazione, avendo tenuto conto anche della circostanza che, al momento dell’entrata in vigore della riforma delle autonomie locali, i servizi tributari di comuni e province erano in sostanza sguarniti di risorse.
La revisione dell’ordinamento tributario locale, già prevista come principio dall’art. 54 della legge n. 142 e inclusa nelle finalità indicate dalla legge delega 23 ottobre 1992, n. 421, è stata integrata con le prescrizioni dell’art. 3, commi 143 e seguenti, della legge 21 dicembre 1996, n. 662, sulla razionalizzazione della finanza locale, successivamente ampliata dal D.L.vo 15 dicembre 1997, n. 446.
Un’altra innovazione di spessore introdotta dalla legge n. 142 è il principio, allora veramente nuovo nell’ordinamento giuridico, che agli organi elettivi compete il potere d’indirizzo e controllo, mentre agli organi burocratici spetta la gestione amministrativa dell’Ente. Con la formalizzazione di questo principio è stato attuato un epocale cambiamento di cultura nella gestione pubblica, dato che le imprecise distinzioni delle sfere di competenza fra l’organo politico e quello burocratico spesso comportavano nel passato un palleggiamento delle responsabilità.
Il nuovo ordinamento, attuando una diversa ottica di riparto delle competenze, ha dato la dignità di organo dell’Ente ai dirigenti e coassialmente ha delineato gli spazi entro cui si devono muovere rispettivamente gli organi politici e quelli burocratici, pur permettendo fra di loro dei momenti di forti integrazioni e di virtuose sinergie. In questo contesto sono state ridisegnate le funzioni degli organi del l’Ente considerando la circostanza che nel precedente ordinamento la rappresentanza esterna, anche per le più semplici funzioni amministrative, competeva solo agli amministratori.
Il nuovo ordinamento delle autonomie locali, fissando nuove forme di partecipazione popolare alla vita pubblica, ha riconosciuto al cittadino la sua qualità di protagonista dell’attività dell’Ente, e non solo quella di utente.
Alcuni principi positivati nella legge n . 142, che erano già stati recepiti dall’orientamento costante della giurisprudenza amministrativa (in particolare la tra s parenza dell’azione amministrativa e l’accesso agli atti dell’Ente), vengono sviluppati dalla quasi coeva legge 7 agosto 1990, n. 241, che detta nuove norme in materia di procedimento amministrativo; è da evidenziare che quest’ultima, riprendendo quanto già codificato dalla legge n. 142, all’art. 7, commi 3, 4 e 5, ha il pregio di aver normato in tutti i settori della pubblica Amministrazione la trasparenza dell’attività amministrativa, instaurando la prevalenza del comportamento dell’accesso agli atti della P.A. rispetto la precedente cultura del segreto degli atti pubblici.
La legge n. 241 ha inoltre la peculiarità di aver spostato l’attenzione dal singolo atto al procedimento amministrativo, alla cui conclusione possono concorrere una sequenza di atti: conseguentemente, con i principi contenuti in essa viene data maggior considerazione al comportamento della pubblica Amministrazione rispetto al singolo atto. La maggior attenzione data da questa legge al procedimento amministrativo è la conseguenza logica della presa di coscienza che non è più il singolo atto che qualifica l’attività amministrativa e che talvolta più atti formalmente legittimi possono con correre al raggiungimento di un risultato illecito.
Un’altra importante norma della legge n. 241 è l’art. 18, che prevede l’obbligo per tutte le pubbliche amministrazioni di a dottare entro sei mesi dalla sua entrata i n vigore appositi regolamenti idonei a garantire l’applicazione delle disposizioni in materia di autocertificazioni e presentazioni di documenti da parte di cittadini, a i sensi della legge 4 gennaio 1968, n. 15: questa norma rappresenta la fine della cultura del sospetto della pubblica Amministrazione verso il cittadino, che ora viene responsabilmente coinvolto nelle procedure amministrative attivate su sua istanza.
Il percorso per giungere ad un autonomo organigramma delle proprie risorse organiche e finanziarie si dimostrò più lungo del previsto, nonostante che gli amministratori avessero già avuto coscienza d elle loro capacità di autonoma gestione. L a legge n. 421/1992, sulla razionalizzazione delle amministrazioni pubbliche, che prevede anche il riordino del pubblico impiego e dell’ordinamento contabile e tributario degli enti locali, e la legge 25 marzo 1993, n. 81, sull’elezione diretta del Sindaco e del Presidente della Provincia, resero operativi e rafforzarono molti dei principi che sono astrattamente contenuti nella legge n. 142.
In questo nuovo quadro normativo un ruolo a se stante va attribuito al D.L.vo 3 febbraio 1993, n. 29 (emanato su delega della legge n. 421) che dispone nuove norme sulla razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e sulla revisione del pubblico impiego; in particolare questo decreto ha il pregio di allargare a tutte le pubbliche amministrazioni il principio della separazione dei poteri e di rivolgere l’attenzione della pubblica Amministrazione ai risultati della sua attività, i quali devono essere raggiunti rispettando la legittimità e garantendo l’economicità, l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa.
Un ulteriore passo verso il completa mento del nuovo ordinamento è stato compiuto con l’emanazione del D.L.vo 25 febbraio 1995, n. 77 (anch’esso emanato su delega della legge n. 421), che ridisciplina l’ordinamento finanziario e contabile degli enti locali.
Gli ultimi provvedimenti legislativi che implementano e cercano di riordina re i contenuti di quel paniere normativo con cui si è voluto forgiare un Ente locale moderno ed efficiente, si rinvengono n ella legge n. 265/1999, che rivisita molti istituti della legge n. 142, e nel quasi coevo D.L.vo 30 luglio 1999, n. 286, che detta norme sui controlli interni negli enti pubblici.
Per comprendere la portata di questi provvedimenti legislativi, gli stessi devono essere inquadrati fra gli aggiustamenti legislativi necessari per preservare l’armonia normativa generale con l’evoluzione del contesto socio-politico e per evitare che alcune norme, che risultano inadeguate dopo la loro emanazione, vadano in dissuetudine. La produzione legislativa di settore ha assunto una connotazione che eufemisticamente si può aggettivare come alluvionale, mettendo in evidenza la necessità dell’emanazione di un testo di legge che funga da crogiuolo per amalgamare le molteplici norme che regolano il settore degli enti locali.
L’art. 10, comma 4, del D.L.vo n. 286/1999 emanato, sulla scorta della delega contenuta nella legge 15 marzo 1997, n. 59, prevede la facoltatività di un suo recepimento per gli enti locali, considerando la normativa di settore già inter venuta sull’argomento. Si ricorda che l’art. 1 della quasi coeva legge n. 265/1999 ha disposto che la potestà regolamentare degli enti locali va esercitata secondo i principi fissati dalla legge: conseguentemente il recepimento del D.L.vo n. 286 negli enti locali deve considerarsi prescrittivo e non facoltativo.
Ogni Amministrazione potrà inserire, negli spazi lasciati liberi dalla legge all’autonomia locale, quelle norme regolamentari che in materia di controlli interni riterrà più opportune: ciò con l’intento di sburocratizzare l’azione amministrativa, non deregolamentando la materia trattata ma fissando regole più snelle e più conso ne alla realtà di ciascun Ente.
Per esercitare le varie forme di controllo previste dal D.L.vo n. 286/1999 gli enti locali minori, data la difficoltà di creare degli autonomi uffici di controllo interno, possono dar vita fra di loro ad uffici unici con virtuosi processi di aggregazione utilizzando lo strumento delle convenzioni ai sensi dell’art. 24 della legge n. 142, metodo già testato autonomamente in diverse realtà per lo svolgi mento del controllo di gestione (disciplinato dall’art. 39 e seguenti del D.L.vo n. 7/1995) ed ora riproposto dall’art 10, comma 5, del D.Lvo n. 286/1999.
Analizzando i controlli, nelle varie specie in cui si effettuano, si deve tenere in evidenza che, in qualunque maniera vengono esercitati, devono essere propositivi e non repressivi, anche se talvolta si manifestano con effetti ablatori. Inoltre il soggetto titolare del potere di controllo ha l’obbligo di motivare la sua manifestazione di volontà o di conoscenza, specie quando l’esito dell’attività di controllo non sia lapalissiano. Le innovazioni di questa riforma hanno spostato il sistema dei controlli dal controllo esterno sugli atti a quello interno della gestione, che ha ricevuto una precisa definizione nell’art. 19 e seguenti del D.L.vo n. 77/1995.
Uno degli obiettivi che si era posta la legge n. 142 era garantire che anche gli enti locali di piccole dimensioni dessero seguito al processo di riforma, nonostante le ridotte misure delle loro strutture burocratiche.
Gli strumenti di cui la nuova legge si è dotata per raggiungere l’obiettivo di rendere funzionali questi enti si individuano nella facoltà di associarsi tramite le convenzioni, le unioni e le fusioni. L’istituto dei consorzi regolati dall’abrogata legge comunale e provinciale aveva dato vita ad entità sovracomunali il cui compito era quello di gestire in economia servizi quali una scuola media o il servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani, servizio che invece per le sue caratteristiche avrebbe dovuto essere gestito con criteri aziendalistici.
Il legislatore del 1990 ha previsto che i consorzi tra comuni devono essere attivati solo per la gestione associata di uno o più servizi di carattere produttivo e con le norme per le aziende speciali, mentre ha demandato alle convenzioni fra comuni lo svolgimento coordinato di funzioni.
Accanto a queste formule, che rappresentano un nuovo modo di interagire, anche se in parte mutuate dalla precedente legislazione, la legge n. 142, all’art. 26, ha previsto per la gestione associata di più servizi con un’unica organizzazione l’istituto dell’unione di comuni, che rappresenta una formula più evoluta di quella che era l’organizzazione dei vecchi consorzi. Il legislatore inizialmente aveva finalizzato le unioni alla fusione fra i comuni partecipanti all’unione: ma nel disporre questa norma non aveva tenuto in evidenza il fatto che le comunità locali, per quanto di dimensioni demografiche ridotte, non sono solo un’entità giuridica m a rappresentano una determinata cultura radicatasi su di un preciso territorio; conseguentemente l’istituto delle unioni inizialmente non è stato accolto secondo le aspettative del legislatore, anche perché le regioni non sono intervenute nel fissare gli incentivi ai comuni che fossero ricorsi a tale sistema di collaborazione.
Con la legge n. 265/1999 l’istituto delle unioni è stato riformato rimuovendo il termine di 10 anni entro cui esse dovevano trasformarsi in fusioni di comuni, pena lo scioglimento dell’unione e prevedendo l’istituto associato delle funzioni fra comuni al fine di favorire il processo di riorganizzazione sovracomunale dei servizi e delle funzioni esercitate dagli enti locali. Le fusioni fra comuni comunque sono state incentivate dalla legge n. 142 sia prevedendo particolari benefici economici alla nuova entità giuridica, sia assicurando alle comunità di origine la costituzione nel loro territorio di municipi, governati da organi direttamente eletti a suffragio universale.
Nella gestione dei servizi pubblici, che hanno per oggetto la produzione di beni o attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali, non ché nella quotidiana gestione amministrativa dell’Ente locale, la legge n. 142 prevede la ricerca di strumenti operativi con cui raggiungere una migliore efficienza, produttività ed economicità. Queste poche parole, codificate dal legislatore del 1990 nel contesto della nuova regolamentazione dell’organo di revisione, impongono agli enti locali un cambio nelle modalità di gestione, in quanto riconoscono come superato il principio della legittimità degli atti amministrativi come unica pietra di paragone della qualità dei risultati, in quanto era stato te stato che la legittimità di un singolo atto non è condizione sufficiente per assicurare il raggiungimento degli obiettivi approvati dagli organi politici. Ciò implica un’impostazione delle modalità di gestione con criteri aziendalistici, ma con l’avvertenza che in un Ente pubblico va comunque rispettato il principio della legalità dell’azione amministrativa e che il suo risultato non va valutato solo sotto l’aspetto del rendimento economico ma anche considerando l’indice di soddisfa zione delle necessità sociali. Conseguentemente l’onere economico del servizio pubblico in parte va coperto dalle tariffe pagate dagli utenti e in parte viene attribuito alla comunità indistinta dei cittadini.
In questa ottica gli enti locali, accanto alle tradizionali rilevazioni contabili di carattere finanziano, devono adottare il sistema di contabilità che ritengono più idoneo per le proprie esigenze al fine di predisporre il rendiconto della gestione anche con criteri economici oltre a quelli finanziari.
L’adozione di criteri aziendalismi nella gestione dell’Ente pubblico implica comunque il ricorso ad una programmazione degli interventi e l’accantonamento dei criteri di improvvisazione che, per la professionalità che viene richiesta agli operatori, non è ammessa neanche in presenza di eventi eccezionali. Si fa presente che la predisposizione di un bilancio non significa altro se non la traduzione in termini finanziari di un programma socio-economico che coinvolge molteplici fattori.
Il richiamo ad una programmazione pluriennale, che implica una verifica degli equilibri intergenerazionali, è previsto anche dall’art. 55 della legge n. 142 che, mutuando una prescrizione dalla legislazione preesistente, ha disposto che il bilancio annuale è corredato da un bilancio pluriennale, di durata pari a quello della Regione di appartenenza. Questi principi sono stati sviluppati dai successi vi provvedimenti di attuazione del nuovo ordinamento degli enti locali fra cui si ricorda, per il particolare rilievo che riveste, il piano generale di sviluppo dell’Ente, indicato dall’art. 7, comma 7, del D.L.vo n. 77/1995 che è stato successiva mente ripreso dalla legge n. 265/1999 nella parte in cui integra l’art. 34 della legge n. 142, il quale dispone che il nuovo capo dell’Amministrazione presenti al Consiglio dell’Ente le linee programmatiche relative alle azioni e ai progetti da realizzare nel corso del mandato.
Sotto l’aspetto normativo la programmazione trova la sua esplicitazione . annuale nel piano esecutivo di gestione, obbligatorio ai sensi dall’art. 11 del D.L.vo n. 77/1995 per le province e per i comuni con oltre 15.000 abitanti: questo strumento gestionale, per non essere una semplice assegnazione di risorse, presuppone un coinvolgimento delle strutture fin dalla predisposizione del bilancio.
Per rendere operativi questi strumenti di programmazione si è passati da un sistema di lavoro per progetti anziché per uffici, con una conseguente conduzione dei programmi sulla base di responsabilità spesso trasversali, individuate anche al di fuori delle tradizionali competenze per servizi. Comunque, nel lavoro per progetti non può considerarsi obsoleta la necessità di un’azione amministrativa rispettosa della legalità e del principio di imparzialità, in quanto l’efficacia non può superare gli argini di principi che, nello stato sociale e di diritto, devono essere salvaguardati per evitare gli arbitri e quei comportamenti dettati da finalità individualistiche o meramente corporative, che di certo non giovano alla cura degli interessi generali.
Nell’ottica della diversificazione dei controlli nell’Ente locale e della sua trasformazione in chiave aziendalistica, una il delle innovazioni di maggior rilievo del nuovo ordinamento è stata la diversa composizione dell’organo di revisione, che è stato assimilato a quello delle società di capitali. L’organo di revisione previsto dalla precedente normativa risultava inadeguato da diversi lustri, anche in relazione alla maggior partecipazione dell’Ente locale alle qualità della vita della “città”, per la limitata competenza che gli veniva attribuita dalla legge (i revisori potevano svolgere il loro compito ispettivo solo nei confronti del conto presentato dal tesoriere e sui documenti ad esso allegati), per la temporaneità della loro funzione (i revisori venivano nominati annualmente e con criteri politici, per cui potevano essere non confermati nel corso della legislatura), nonché per la loro scelta all’interno del Consiglio comunale (i revisori venivano nominati fra i consiglieri comunali, senza che fosse loro richiesta una particolare professionalità in materia).
Il nuovo organo di revisione, inizialmente disciplinato dall’art. 57 della legge n. 142 e poi più dettagliatamente regolato dagli artt. 100 e seguenti del D.L.vo n. 77/1995, è composto da tre professionisti scelti rispettivamente uno tra gli iscritti nel ruolo dei revisori contabili, uno tra gli iscritti nell’albo dei dottori commercialisti ed uno tra gli iscritti nel ruolo dei ragionieri.
Nei comuni aventi una popolazione inferiore a 5.000 abitanti la funzione del l’organo di revisione è affidata ad un solo revisore, scelto tra i professionisti precedentemente elencati. La scelta del legislatore di inserire nell’organo di revisione degli enti locali dei professionisti iscritti in albi, che sono ordinariamente chiamati a verificare la gestione di aziende private, ha lo scopo di trasferire negli enti locali i principi di gestione aziendalistica utilizzati nel settore privato. I revisori vengono eletti dai consigli comunali e provinciali con voto limitato a due componenti in modo da permettere alla minoranza di esprimere un professionista di sua fiducia. Le loro funzioni ora sono estese a tutta l’attività finanziaria e contabile dell’Ente, anche se la loro relazione sul rendiconto resta il documento più rilevante della loro attività e nel quale essi esprimono rilievi e proposte tese a conseguire una migliore efficienza, efficacia ed economicità della gestione.
I revisori, oltre le verifiche trimestrali su l la situazione di cassa e sulle verifiche di carattere generale della gestione contabile e dell’attività contrattuale dell’Ente, prestano una particolare collaborazione con gli organi dello stesso, formulando dei pareri sia sulla proposta di bilancio di previsione che sulle sue successive variazioni.
II revisore dovrà agire monitorando l’intera attività dell’Ente individuando i punti critici della gestione e proponendo soluzioni alternative a quelle adottate, qualora queste risultino essere inadatte per il raggiungimento degli obiettivi con criteri di efficacia ed efficienza con funzione propositiva si qualificherà in particolare quando il revisore darà il suo apporto collaborativo al Consiglio del l’Ente nel momento delle scelte strategiche.
La funzione di rappresentante legale dell’Ente locale è rimasta attribuita dalla riforma del 1990 al capo dell’Amministrazione e allo stesso ora compete di diritto il riconoscimento di organo esponenziale della cittadinanza, essendo divenuti espressione diretta della volontà popolare e non più dal Consiglio dell’Ente (con il precedente ordinamento essi veni vano eletti dal Consiglio).
L’attuale sistema di elezione diretta del capo dell’Amministrazione e l’attribuzione di un premio di maggioranza alla lista dei consiglieri collegati con il candidato eletto Sindaco o Presidente della Provincia assicurano una maggior stabilità politica all’amministrazione del l’Ente locale ed imprime al capo del l’Amministrazione un carisma di centralità nella direzione strategica dell’Ente che non si rinviene nel precedente ordinamento.
Questa nuova posizione del capo del l’Amministrazione è la conseguenza di retta del fatto che egli è titolare di alcune funzioni di indirizzo proprie da cui deriva sia il potere attribuitogli di nominare i componenti della Giunta, fra i quali un Vicesindaco o un Vicepresidente, i cui nominativi vengono comunicati al Consiglio nella prima seduta successi va alle elezioni (nel precedente ordina mento competeva al Consiglio eleggere la Giunta), che la circostanza che un suo impedimento permanente o le sue dimissioni implicano lo scioglimento del Consiglio.
Il Sindaco e il Presidente della Provincia entrano in carica direttamente con la proclamazione dei risultati elettorali, mentre precedentemente per il loro insediamento si doveva attendere l’esecutività della deliberazione della loro nomina. Il nuovo ordinamento attribuisce al capo dell’Amministrazione la competenza a nominare i rappresentanti dell’Ente presso enti ed istituzioni, riservando al Consiglio la determinazione dei criteri con cui vanno effettuate queste nomine. Al Sindaco e al Presidente della Provincia compete la nomina del Segretario e del Direttore dell’Ente, la nomina dei responsabili degli uffici e dei servizi nonché l’attribuzione degli incarichi dirigenziali.
La centralità della figura del Sindaco o del Presidente della Provincia è stata rafforzata dalla legge n. 127/1997 nel prevedere la possibilità di costituire, secondo le indicazioni del regolamento degli uffici e dei servizi, degli uffici posti alle dirette dipendenze del capo dell’Amministrazione o degli assessori per l’esercizio della funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite dalla legge, purché l’Ente non abbia dichiarato il dissesto o non versi in situazioni strutturalmente deficitarie.
Al fine di armonizzare nel territorio comunale l’espletamento dei servizi con le esigenze complessive e generali degli utenti, il Sindaco, d’intesa con i responsabili territorialmente competenti delle amministrazioni interessate, fissa gli orari di apertura degli uffici pubblici localizzati sul territorio comunale, nonché gli orari degli esercizi commerciali, dei servizi ed esercizi pubblici.
Con la legge sull’elezione diretta del capo dell’Amministrazione è stato previ sto che possono fare parte della Giunta anche cittadini scelti al di fuori dei componenti il Consiglio: la norma vuole per mettere la presenza in Giunta di assessori tecnicamente preparati (ma non l’eventuale ripescaggio di candidati che non hanno superato il vaglio della consulta zione elettorale).
La legge n. 142 ha rivisitato le competenze della Giunta trasformandola da organo di amministrazione in organo di collaborazione con il capo dell’Amministrazione e la successiva legge n. 265/1999 ha rafforzato il suo ruolo prevedendo che la presentazione al Consiglio da parte del Sindaco o del Presidente della Provincia del proprio programma di mandato avvenga solo dopo aver sentito sull’argomento la Giunta (il testo originario della legge n. 81/1993 prevedeva che la presentazione di questo documento venisse effettuata dal capo dell’Amministrazione prima della nomina della Giunta).
Nel precedente ordinamento alla Giunta era concessa la facoltà di surroga re in caso di urgenza il Consiglio, ma il cattivo uso di questa facoltà spesso limitava il potere del Consiglio, anche su decisioni importanti, alla sola ratifica di quanto precedentemente deciso dalla Giunta: ora la legge n. 142 limita questo potere surrogatorio alle sole variazioni di bilancio.
La competenza attuale della Giunta è di carattere residuale essendole attribuita l’adozione degli atti non spettanti ad altri organi. Le funzioni di impulso all’attività amministrativa spettanti alla Giunta precedentemente venivano compresse da una serie di incombenze amministrative t he avevano connotazioni gestionali e non strategiche e che ora sono attribuite agli organi burocratici. Alla Giunta spetta l’adozione di atti di indirizzo politico dell’attività amministrativa ed altri compili di rilievo fra i quali si menziona l’adozione del piano esecutivo di gestione, l’approvazione dei progetti di opere pubbliche l’adozione dei regolamenti sull’ordinamento degli uffici e dei servizi.
La funzione di amministrazione attiva propria della Giunta dell’Ente locale può identificarsi con quella dell’organo di valutazione e controllo strategico previsto dal D.L.vo 286/1999.
Il controllo strategico ha una funzione diversa sia dal controllo di gestione che dalla funzione di indirizzo e controllo sull’attività dell’Amministrazione; esso si identifica in una attività che, rifacendosi ai programmi approvati, agli indirizzi operativi emanati ed ai risultati del controllo di gestione, mira a verificare l’effettiva attuazione delle scelte operate analizzando la congruenza dei risultati ottenuti con le attività espletate, con le risorse impiegate (umane, finanziarie e strumentali), con gli ostacoli incontrati e con i correttivi a cui si è ricorsi.
L’attività di valutazione e controllo strategico utilizza i dati rilevati dal controllo di gestione ma è tesa a valutare nella loro fase attuativa l’adeguatezza delle scelte compiute con l’approvazione dei singoli programmi di indirizzo politi co e dei successivi procedimenti attuativi, mettendo a confronto la congruenza o gli scollamenti tra obiettivi predeterminati e risultati raggiunti.
Lo scopo di questo tipo di controllo consiste nel verificare il prodotto aggiunto che si è creato con la gestione nonché l’impatto che è stato provocato nel conte sto sociale dal raggiungimento degli obiettivi prefissati, le modalità con cui gli stessi si stanno raggiungendo o siano stati già raggiunti o le ragioni per le quali sono stati raggiunti parzialmente o addirittura sono stati mancati. Il controllo strategico oltre ad interessarsi dello stato di avanzamento dei singoli progetti deve anche proporne gli eventuali aggiustamenti che si rendessero necessari.
Questa attività può essere affidata d alla Giunta anche ad un supporto esterno ad essa, con il compito di presentare e segnalare asetticamente e professionalmente gli scostamenti dei risultati ottenuti rispetto ai progetti approvati e di suggerire azioni alternative o modificative di quelle precedentemente approvate: naturalmente in tal caso le valutazioni di merito su queste proposte competono all’organo politico.
A questo nuovo organo dove essere attribuito anche il compito di effettuare la valutazione sull’operato dei dirigenti, del Segretario e dell’eventuale Direttore. Date le implicazioni di merito insite in questa fattispecie di controllo, alla relati va documentazione non si applicano le disposizioni sull’accesso ai documenti amministrativi, essendo un’attività di supporto agli organi politici per l’emanazione di atti di carattere generale.
La vecchia legge comunale e provinciale attribuiva al Consiglio dell’Ente dei compiti di mera gestione amministrativa che svilivano le sue funzioni di organo esponenziale della cittadinanza. Questa funzione del Consiglio viene rinforzata dalla circostanza che ora il giuramento del capo dell’Amministrazione di osserva re lealmente la Costituzione italiana e le sue leggi viene fatto davanti al Consiglio dell’Ente nella seduta di insediamento e non più davanti al Prefetto.
Uno dei principali pregi della legge n. 142 è stato il riordino delle competenze degli organi dell’Ente locale, che nel precedente ordinamento si intrecciavano dando vita ad una confusione dei rispettivi ruoli, che male si coniugava con il principio del buon andamento e che rendeva difficile sia l’individuazione dei titolari dei risultati positivi che l’attribuzione delle eventuali responsabilità. Il nuovo ordinamento degli enti locali ha individuato nuovi compiti al Consiglio dell’Ente locale, attribuendogli la funzione di organo di indirizzo e controllo politico-amministrativo, nonché la competenza all’adozione dei soli atti fondamentali dell’Ente, sui quali esercita una competenza esclusiva, con la sola eccezione delle va riazioni al bilancio, con l’avvertenza che nell’attuale ordinamento questi atti devono essere ratificati dal Consiglio entro 60 giorni dalla loro adozione, pena la loro decadenza.
La valenza politica del Consiglio comunale ha subito una flessione in conseguenza dell’elezione diretta del capo del l’Amministrazione, ma il legislatore ha attribuito al Consiglio un’autonomia funzionale prevedendo la figura del Presidente del Consiglio nei consigli delle province e in quelli dei comuni con oltre 15.000 abitanti, stabilendo che, ove lo statuto non da alcuna indicazione sulle modalità di nomina, le funzioni di Presidente del Consiglio vengono svolte dal consigliere anziano. La legge lascia alla facoltà degli statuti dei comuni minori di stabilire nel l’impostazione del proprio assetto istituzionale l’eventuale presenza del Presidente del Consiglio, il quale deve assicurare un’adeguata e preventiva informazione ai capigruppo consiliari ed ai singoli consiglieri sulle questioni sottoposte al vaglio del Consiglio.
La figura dei capigruppo consiliari, precedentemente individuata solo dai singoli regolamenti sul funzionamento del Consiglio, è stata positivata dalla legge n. 142, all’art. 45, che prevede la comunicazione ad essi di alcune specifiche deliberazioni della Giunta, sulle quali un determinato numero di consiglieri può chiedere che il CO.RE.CO. eserciti il controllo preventivo di legittimità.
La funzione di indirizzo e controllo, astrattamente attribuita al Consiglio dell’Ente locale dall’art. 32 della legge n. 142, ha trovato un rafforzamento nei successivi artt. 34 e 57. L’art. 34, come integrato dalla legge n. 265/1999, demanda allo statuto la disciplina delle modalità di partecipazione del Consiglio alla definizione, all’adeguamento ed alla verifica periodica dell’attuazione delle linee programmatiche da parte del capo dell’amministrazione e dei singoli assessori: la legge elenca precise competenze di sindacato del Consiglio nei confronti dell’organo di amministrazione attiva. Con l’impostazione data dalla legge n. 265/1999 il Consiglio ora ha la facoltà di intervenire anche sull’impostazione contenutistica delle linee programmatiche del capo del l’Amministrazione.
L’art. 57 prevede invece che l’organo di revisione collabora con il Consiglio nella sua funzione di controllo ed indirizzo: questa funzione del tutto nuova attribuita ai revisori deve essere esercitata tra mite una collaborazione attiva che non attende il passivo momento della convocazione da parte dei consiglieri e che può essere garantita solo con un costante esame dei punti di criticità della gestione e da un’apertura alle istanze di tutte le componenti politiche del Consiglio. Questa funzione del Consiglio viene rafforzata dalla legge n. 265/1999, che attribuisce alle opposizioni consiliari la presidenza delle commissioni consiliari permanenti, ove costituite, aventi funzione di controllo o di garanzia.
Nella presa di coscienza della propria autonomia, da parte dei sindaci e dei presidenti della Provincia era male accettata la circostanza che il nuovo ordinamento dei segretari comunali e provinciali fosse solo uno fra i principi previsti dalla nuova legge. La legge n. 142, infatti, lasciava inalterata per il Segretario dell’Ente la funzione di vertice burocratico e rinviava, ad una apposita legge, la formulazione di un diverso ordinamento dei segretari comunali e provinciali, in quanto sull’argo mento non vi era concordanza su quale assetto normativo dare a questi funzionari.
Uno degli aspetti più controversi derivava dal fatto che il Sindaco o il Presidente della Provincia non aveva praticamente alcun potere nella procedura della loro nomina, pur rivestendo il Segretario un ruolo rilevante all’interno dell’Ente locale.
Un altro aspetto controverso delle funzioni che erano attribuite al Segretario dell’Ente dalla legge n. 142 era la formulazione del parere di legittimità su ogni proposta di deliberazione, funzione attribuita in un momento storico in cui era già testato che un atto può essere legittimo ma al tempo stesso inefficiente ed inefficace.
Inoltre la legge n. 241/1990, emanata a soli due mesi di distanza dalla n. 142, aveva spostato l’attenzione nelle pubbliche amministrazioni dal risultato del singolo provvedimento al risultato del procedimento, a cui concorre il singolo atto. La formulazione di detti pareri, se non veniva esplicata formalmente, considerando la preesistenza del parere di regolarità tecnica che già contiene delle implicazioni di legittimità sulla proposta di deliberazione, veniva a costituire di fatto un appesantimento dell’attività dell’Ente. La centralità della figura del capo dell’Amministrazione, dopo l’emanazione della legge sulla loro elezione diretta, ha evidenziato la necessità di rivedere la posizione del Segretario. Le varie proposte normative in materia sono confluite nell’art. 17, commi 67 e seguenti, della legge n. 127/1997 che, nel revisionare le funzioni tipiche del Segretario comunale e provinciale, ha confermato la sua connotazione di organo essenziale dell’Ente locale anche se ora è prevista la dipendenza giuridica dei segretari, per la gestione del loro rapporto di lavoro, da un’apposita agenzia, e non da più dalla Prefettura.
L’inquadramento funzionale dei segretari nei comuni e nelle province è praticamente rimasto inalterato, anche se il loro rapporto con l’Ente locale è stato rinforzato in quanto è stata riconosciuta al neoeletto capo dell’Amministrazione la facoltà di nominare il Segretario dell’Ente. Il Segretario è stato così trasformato in un libero professionista pubblico che viene incaricato di un rapporto di impiego a termine con un Ente locale.
Si è constatato che questo nuovo stato giuridico dei segretari ha dato luogo a comportamenti scorretti di sindaci o presidenti di Provincia che, in caso di segreteria vacante o in caso di esercizio della facoltà di non conferma del Segretario titolare a seguito di nuova elezione del capo dell’Amministrazione, interpellano alcuni segretari e decidono quale Segretario nominare, prima di avviare la procedura per la scelta del titolare.
Nel sistema di individuazione dei nuovi segretari si deve anche eccepire il mancato rispetto in molti casi dell’iscrizione nelle fasce professionali dei candidati prescelti, nonché la complicità dell’agenzia nella successiva nomina del titolare della segreteria da parte del capo del l’Amministrazione, in quanto l’agenzia spesso ha formulato il nulla osta all’assegnazione all’Ente locale di un Segretario che in realtà non era in possesso dei necessari requisiti.
Si ritiene opportuno mettere in evidenza la circostanza che la nomina irregolare di un Segretario, oltre a prestare il fianco ad eventuali ricorsi, comporterà per l’Ente delle conseguenze non positive, in quanto un funzionario che è conscio di essere stato nominato in difformità dalle regole, anche se la sua posizione viene sa nata a posteriori, molto probabilmente non gestirà l’Ente secondo i criteri della prassi normativa.
La novella normativa ha previsto che al Segretario competono le seguenti funzioni:
a) compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell’Ente in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti (art. 17, comma 68, primo periodo);
b)partecipare con funzioni consulti ve, referenti e di assistenza alle riunioni del Consiglio e della Giunta e curarne la verbalizzazione (art. 17, comma 68, punto a del quarto periodo);
c) rogare tutti i contratti nei quali l’Ente è parte ed autenticare scritture private ed atti unilaterali nell’interesse del l’Ente (art. 17, comma 68, punto b del quarto periodo);
d) esercitare ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti dell’Ente (art. 17, comma 68, punto e del quarto periodo).
Sulle funzioni attribuite al Segretario in applicazione del precitato punto d), si fa presente che il capo dell’Amministrazione può, con motu proprio, attribuirgli anche altre funzioni oltre a quelle spettantegli istituzionalmente. Si ritiene necessario precisare che l’affidamento di de terminate funzioni di gestione al Segreta rio deve avere il carattere di provvisorietà, in attesa che venga ricostituito il fisiologico assetto organizzativo dell’Ente.
La circolare del Ministero dell’interno 15 luglio 1997, n. 18, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 175 del 29 luglio 1997, ha precisato che sono da considerarsi confermate le attività che il Segretario svolge in virtù di norme particolari emanate anteriormente alla legge n. 127/1997. La funzione di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell’Ente (da intendersi ivi comprese le figure apicali) in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti, attribuita al Segretario dell’Ente locale dall’art. 17, comma 68, della legge n. 127/1997, ha la medesima valenza di una verifica della legittimità degli atti assunti dall’Ente locale ed è in linea con la necessità di avere all’interno una figura che attesti la regolarità dell’azione amministrativa, essendo praticamente venuti meno i controlli esterni di legittimità.
Qualora il capo dell’Amministrazione non abbia provveduto alla nomina del Direttore generale, l’art. 17, comma 68, terzo periodo, della legge n. 127/1997, attribuisce al Segretario il compito di sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti (o dei dipendenti con funzioni dirigenziali), e ne coordina l’attività: queste funzioni hanno la connotazione dell’obbligatorietà, ma ciò non ne diminuisce la loro eventualità. Si tratta quindi di un compito aggiuntivo che viene affidato dalla legge al Segretario, anche se tramite un comportamento omissivo del capo dell’Amministrazione.
Con la funzione di sovraintendenza e coordinamento dell’attività dei dipendenti viene riconosciuto al Segretario un ruolo di garante dell’attività dell’Ente, che è strettamente collegata ai suoi compiti di collaborazione ed alla funzione di assistenza giuridico-amministrativa che ha nei confronti di tutti gli organi dell’Ente. Il Segretario mantiene il ruolo di raccordo fra organo politico e struttura amministrativa trasformando gli indirizzi politici in direttive di lavoro, ma nei confronti dei dirigenti non ha più una funzione di supremazia gerarchica, bensì un rapporto di direzione funzionale, salvo il caso di accertata inerzia.
Le funzioni di Direttore generale possono essere conferite dal Sindaco o dal Presidente della Provincia al Segretario dell’Ente qualora non sia stato nominato il Direttore o non siano state stipulate le citate convenzioni. L’attribuzione di questa funzione può comportare dei procedimenti contenziosi con l’Amministrazione quando il Segretario, data la sua formazione culturale fondamentalmente giuridica, accusi delle difficoltà nel raggiungimento di qualche obiettivo solo per il rispetto di determinate procedure previste dalla legge, che implicano il raggiungimento degli obiettivi in tempi più lunghi rispetto alle aspettative dei politici.
In materia di personale comunale, la legge n. 142 è stata oggetto di aspre critiche in quanto sembrava essere stata forgiata solo per i comuni di una certa dimensione perché, quando faceva riferimento al personale apicale, poneva la sua attenzione solo ai dirigenti, senza fare alcun riferimento alla circostanza che nella maggioranza dei comuni non erano rinvenibili le figure dirigenziali. Infatti, il quadro normativo allora vigente prevedeva la possibilità di annoverare, fra il personale dipendente, delle figure dirigenziali solo a quei comuni le cui segreterie comunali erano state classificate di classe 1B (comuni con oltre 65.000 abitanti o con la segreteria riclassificata).
Le prime circolari emanate per un’uniforme applicazione della legge n. 142 attribuirono nei comuni minori lo svolgimento delle funzioni dirigenziali al Segretario dell’Ente, in quanto unica figura presente all’interno con qualifica direttiva, anche se in detti enti veniva riconosciuta l’esistenza dei responsabili dei servizi. Si deve puntualizzare che il dirigente deve essere una figura progettuale verso l’Amministrazione e inoltre deve agire nell’ambito di un’ampia e piena autonomia per il raggiungimento degli obiettivi stabiliti dall’Amministrazione.
Dopo ampie discussioni e confronti sulla portata della dizione “dirigente” utilizzata nel testo della legge n. 142, con la legge n. 127 è stato introdotto il principio che anche negli enti locali che non annoverano nella loro dotazione organica dei dirigenti, i rispettivi capi delle amministrazioni possono conferire le funzioni dirigenziali ai responsabili di uffici e servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale con l’avvertenza che i dipendenti insigniti delle funzioni dirigenziali devono operare anch’essi nell’ambito di indicazioni di massima date dagli organi di direzione politica.
Queste iniziali critiche alla legge n. 142 sono state rimosse dall’art. 13 della legge n. 265/1999, che superando i precedenti vincoli ancestrali sulle qualifiche attribuibili al personale, che male si coniugavano con i principi dell’autonomia e del federalismo, ha previsto che gli enti locali determinano la propria dotazione organica, nonché l’organizzazione e la gestione del personale, con i soli limiti derivanti dalle proprie capacità di bilancio e dalle esigenze di esercizio delle funzioni, dei servizi e dei compiti loro attribuiti. Le funzioni dirigenziali si possono così sintetizzare:
a) dirigono gli uffici ed i servizi loro affidati (art. 51, comma 2);
b) svolgono i compiti che impegnano l’Amministrazione verso l’esterno, non attribuiti agli organi di governo (art. 51, comma 3);
c) svolgono i compiti necessari per attuare gli obiettivi ed i programmi definiti dagli organi politici (art. 51, comma 3);
d) sono direttamente responsabili, in relazione agli obiettivi dell’Ente, della correttezza amministrativa e dell’efficienza della gestione (art. 51, comma 4).
La riforma ha forgiato una figura del dirigente, o del dipendente incaricato di funzioni dirigenziali che opera con procedure flessibili, che viene responsabilizzato nel raggiungimento degli obiettivi e che viene retribuito anche in funzione dei risultati conseguiti.
L’art. 53, comma 1, della legge n. 142, attribuisce ai responsabili dei servizi l’obbligo dell’emissione di un parere di regolarità tecnica su ogni proposta di deliberazione: questo parere, che di fatto non ha la connotazione di un provvedimento di controllo, non può prescindere dalle implicazioni di legittimità che sono insite in un parere tecnico, dato che la regolarità tecnica equivale al rispetto delle regole che disciplinano astrattamente una materia. La formulazione di un parere si estrinseca in una dichiarazione di conoscenza, che può anche essere disattesa dall’organo a cui viene prodotta e conseguentemente un parere non è autonomamente idoneo per attestare la regolarità di un atto.
La finalità di questi pareri è la verifica della procedibilità dei programmi approvati nel contesto del bilancio di previsione. La concretizzazione dei progetti che vengono approvati dagli organi politici, tramite l’assunzione di deliberazioni sulle quali vengono espressi i precitati pareri, viene demandata ai funzionari individuati nel piano esecutivo di gestione: i responsabili dell’esecuzione di questi progetti nel loro operare devono attenersi al principio del buon andamento della pubblica Amministrazione, il che equivale al rispetto delle norme previste dall’ordinamento giuridico.
Nella formazione degli atti deliberativi è previsto che il responsabile dei servizi finanziari ha il compito di esprimersi in or dine alla regolarità contabile di ogni pro posta di deliberazione che implica una spesa o una diminuzione di entrata (art. 53, comma 1, della legge n. 142); inoltre gli è stata attribuita anche la competenza di monitorare tutte le attività dell’Ente al fine di accertarsi che vengano salvaguardati gli equilibri del bilancio (artt. 3, comma 4, 35 e 36 del D.L.vo n. 77/1995). L’organo di revisione esercita a sua volta un’attività di vigilanza sulla regolarità contabile e finanziaria dell’intera gestione dell’Ente, con il compito di riferire al Consiglio dell’Ente le eventuali irregolarità che riscontra: queste segnalazioni hanno lo scopo di mettere al corrente l’organo consiliare dell’esistenza di situa zioni irrituali che possono comportare un danno all’Ente.
La previsione normativa che l’organizzazione degli uffici e dei servizi sia effettuata in base a criteri di autonomia, funzionalità ed economicità di gestione e secondo principi di professionalità e responsabilità, implica l’adozione di strumenti di verifica dell’attività del personale: questi strumenti sono stati già introdotti dai contratti collettivi di lavoro e meglio focalizzati dalla normativa di dettaglio prevista dalla legge n. 421/1992, nel contesto del riordino del pubblico impiego.
In materia di valutazione del persona le, il D.L.vo n. 286/1999 ha voluto fare chiarezza su quella formulazione complessa usata dall’art. 20 del D.L.vo n. 29/1993 (servizio di controllo interno o nucleo di valutazione) che aveva permesso inizialmente una latitanza dei controlli di valutazione sull’operato dei dirigenti o dei responsabili dei servizi e dei settori.
Secondo gli indirizzi del D.L.vo n. 286/1999 la valutazione dei dirigenti (o del personale apicale con incarico dirigenziale) va effettuata dal Segretario o dal Direttore generale dell’Ente, ove nominato, su proposta dei responsabili dei vari servizi, e che è compito dell’organo di valutazione e controllo strategico la valutazione dell’operato delle figure apicali. Nell’ambito dell’autonomia lasciata agli enti locali nella scelta del proprio modello istituzionale per la valutazione del per sonale, queste valutazioni possono essere anche affidate ad un apposito organo individuato dal regolamento degli uffici e dei servizi.
La legge n. 127/1997 ha rielaborato ed integrato le previsioni dell’art. 51, commi 6 e 7, della legge n. 142, in cui si prevede rispettivamente il conferimento degli incarichi dirigenziali a tempo determinato con criteri di competenza professionale sulla base degli obiettivi indicati nel programma amministrativo del capo dell’Amministrazione e la costituzione di collaborazioni esterne ad alto contenuto professionale, per obiettivi determinati e con convenzioni a termine secondo il regolamento sul personale e sui servizi.
L’elezione diretta del Sindaco e del Presidente della Provincia ha contribuito ad instaurare criteri di misurazione del l’attività amministrativa facendo riferimento anche alla soddisfazione indotta nei cittadini. Conseguentemente il legislatore con la medesima legge ha individuato un nuovo organo burocratico che fosse di supporto all’attività di indirizzo e controllo, a cui viene affidato anche il compito di portare a compimento gli obiettivi programmati. La legge n. 127/1997 ha infatti stabilito che nei comuni con oltre 15.000 abitanti e nelle province può essere nominato un Direttore generale. Il legislatore ha dato la possibilità anche ai piccoli comuni di dotarsi di un Direttore generale prevedendo che in questi comuni le citate funzioni possono essere svolte in forma convenzionale fra più comuni la cui popolazione assommata raggiunga i 15.000 abitanti.
Il Direttore è la persona che risponde dei risultati dell’attività dell’Ente, anche se il mancato raggiungimento di uno degli obiettivi prefissati è attribuibile ad altro operatore dell’Ente; non necessita che egli sia un tuttologo, ma deve avere la capacità di intervenire sulle situazioni che presentano dei punti di criticità. Il Direttore generale ha una funzione di direzione strategica dei dirigenti, che restano titolari delle funzioni loro attribuite ma vengono da lui organizzati per il raggiungimento degli obiettivi fissati dagli organi politici.
Le funzioni tipiche del Direttore generale dell’Ente locale (che è stato istituzionalizzato dall’art. 6, comma 10, della legge n. 127/1997, che aggiunge l’art. 51bis alla legge n. 142) sono le seguenti:
a) attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo;
b) predisporre il piano dettagliato degli obiettivi per effettuare il controllo di gestione (art. 39, D.L.vo n. 77/1995);
c) predisporre la proposta di piano esecutivo di gestione (art. 11 del D.L.vo n. 77/1995);
d) sovrintendere alla gestione dell’Ente perseguendo livelli ottimali di efficacia ed efficienza;
e) sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e coordinarne l’attività (art. 17, comma 68, terzo periodo, legge n. 127/1997).
Gli amministratori non devono ritenere che il Direttore generale sia il soggetto che possa superare la poca efficacia dei meccanismi sanzionatoti dei comportamenti irrituali dei dipendenti degli enti locali, in quanto anch’egli dovrà attenersi alle norme contrattualmente previste in materia, le quali sono connotate da un forte garantismo per il dipendente.
Il Direttore generale in base alle sue competenze è il punto di riferimento nel l’Ente per il controllo di gestione. Questa fattispecie di controllo interno è stato mutuato negli enti locali dai criteri di conduzione delle aziende private, per verificare le modalità di raggiungimento degli obiettivi programmati e lo si può definire come lo strumento necessario per conoscere lo svolgimento di un’attività. Il suo utilizzo si è reso necessario dopo aver accertato che il controllo di legittimità non era sufficiente per garantire l’economicità, l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa.
Con il controllo di gestione si verifica:
a) lo stato di attuazione (auditing) degli obiettivi programmatici e il raggiungimento degli obiettivi prefissati, previa analisi delle risorse acquisite e del confronto tra costi e quantità e qualità dei servizi erogati;
b)l’operatività dell’Ente anche mediante tempestivi interventi di correzione;
c) l’efficacia, l’efficienza e l’economicità dell’azione amministrativa al fine di ottimizzare le risorse impiegate.
Si deve tenere presente che in una pubblica Amministrazione il raggiungi mento degli obiettivi non può essere misurato secondo le regole del mercato, in quanto nell’erogazione dei servizi pubblici oltre il risultato economico si deve tenere in considerazione anche il beneficiò che ne deriva alla comunità. Pertanto, all’interno dell’Ente va individuato un soggetto (controller) a cui vanno indirizzati i referti (reports) sullo stato di attuazione dei singoli progetti per coordinare armonicamente l’attività complessiva dell’Ente.
Negli enti locali la materia è disciplinata dal D.L.vo n. 77/1995, agli artt. 39, 40 e 41, che hanno individuato, con notevole chiarezza, in cosa consiste il controllo di gestione, puntualizzando quali sono gli strumenti contabili da utilizzare, le sequenze delle operazioni che lo connotano ed i riferimenti organizzativi di supporto.
Lo strumento di base per l’attuazione di questo tipo di controllo negli enti locali è il piano esecutivo di gestione. Il soggetto preposto all’esame dei risultati del controllo di gestione s’individua nel Segretario oppure, ove nominato, nel Direttore generale, ma con diversi livelli di responsabilità: infatti al primo compete solo il coordinamento dell’attività dei dirigenti, che sono personalmente responsabili del raggiungimento dei risultati loro affidati, mentre il secondo è responsabile in solido con i dirigenti nel raggiungimento dei risultati.
Si puntualizza che il controllo di gestione può essere finalizzato su particolari obiettivi, anche se è opportuno che abbia per oggetto l’intera attività dell’Ente, ma che lo stesso va svolto comunque con continuità per verificare lo stato di attuazione dei singoli progetti al fine di poter intervenire con provvedimenti correttivi in corso d’opera.
Non si devono quindi confondere con il controllo di gestione quelle rilevazioni, seppur valide, che vengono effettuate su singoli settori di attività e con carattere saltuario, le quali hanno lo scopo di monitorare in un determinato momento una specifica attività dell’Ente. Alcuni modelli di controllo di gestione attribuivano al soggetto che lo esercitava anche l’effettuazione delle verifiche che sono proprie sia della valutazione del personale che del cosiddetto controllo strategico: noi riteniamo che, dati i fini teleologici diversi di ogni tipo di controllo, sia più giusto prevedere che i dati che raccoglie il controllo di gestione vengano separatamente utilizzati dall’organo che esercita la valutazione del personale e dall’organo che esercita il controllo strategico.
Il nuovo ordinamento degli enti locali ha rivisitato anche la normativa che attribuiva particolari connotazioni solo al Comune di Roma: il legislatore del 1990 ha previsto che le regioni, su proposta degli enti locali interessati, delimitino delle aree metropolitane nelle zone dei comuni che hanno rapporti di stretta integrazione territoriale in relazione alle attività economiche, ai servizi essenziali alla vita sociale, nonché alle relazioni culturali e alle caratteristiche territoriali.
Ai comuni facenti parte di un’area metropolitana è data la facoltà di costituirsi in una città metropolitana che, quando la sua area non coincide con quella di una Provincia, viene considerata come territorio di una nuova Provincia.
Infine è da rilevare che una peculiarità della legge n. 142 è l’attribuzione alle regioni di una potestà legislativa sulla base dei principi da essa fissati in materia di enti locali, materia precedentemente riservata al legislatore statale: nella fatti specie si è in presenza di una attribuzione di competenze dallo Stato alle regioni che più tardi sarà definita federalismo amministrativo.
Il processo di riforma avviato dalla legge n. 142 ha trasformato l’Ente locale da un apparato burocratico che eroga servizi standardizzati in un sistema integrato di funzioni che producono, con criteri aziendali, attività adeguate alle necessità del cittadino. Conseguentemente, l’applicazione dei principi previsti da questa riforma non deve essere sentita dagli operatori dell’Ente locale come l’adempimento di una formalità, ma deve essere vissuta come una modifica culturale dei comportamenti della pubblica Amministrazione.
di OSVALDO de CASTRO Segretario generale del Comune di Cervignano del Friuli (Udine)