Evoluzione della presenza del revisore nell’Ente Locale.

La legge n. 191/98 ha chiarito che compito dei revisori è la vigilanza sull’attività contabile dell’ente locale, vigilanza che non esclude la possibilità che il revisore sia propositivo verso gli amministratori non solo in presenza di situazioni patologiche. Al riguardo nuove opportunità verranno offerte dall’approssimarsi del nuovo millennio, dall’introduzione dell’Euro e dall’attuazione del patto sociale per lo sviluppo e l’occupazione, sottoscritto anche dall’Anci a fine dicembre 1998. A quasi dieci anni dall’emanazione della legge n. 142/90 queste sono occasioni per dimostrare che l’organo di revisione non è solo una costosa appendice dell’amministrazione locale che si limita ad eccepire gli errori di gestione, ma rappresenta un fulcro di fattiva collaborazione per il raggiungimento degli obiettivi fissati dall’amministrazione.

La necessità di una presenza più qualificata del revisore nell’ente locale era già stata avvertita da quando si sono presentate le prime proposte di rivisitazione dell’ordinamento degli enti locali: il legislatore però non ha ritenuto opportuno effettuare una riforma di questo istituto separata dalla riforma dell’intero sistema delle autonomie locali. Una modifica alla composizione di questo organo ausiliario è stata ipotizzata quando con la legge 26 febbraio 1982 n. 51 nel convertire il decreto legge 22 dicembre 1981 n. 786 è stato introdotto l’art. 27 nonies prevedendo che, nelle aziende pubbliche locali, il collegio dei revisori che esamina il conto consuntivo sia composto da tre membri scelti fra professionisti iscritti agli ordini dei commercialisti e dei ragionieri e tra persone di comprovata esperienza tecnico-amministrativa: questa disposizione, che rispondeva alla necessità di avere a disposizione un organo di revisione qualificato, era innovativa nell’ordinamento giuridico. Nonostante questa innovazione legislativa che introduce il principio che il collegio dei revisori, anche negli enti pubblici locali, deve essere composto da persone di comprovata esperienza professionale, nei comuni e nelle province i revisori continuarono ad essere scelti in seno al consiglio dell’ente locale.

La funzione dei revisori era limitata al solo esame del conto consuntivo e non rappresentava una garanzia per la verifica del buon andamento della gestione dell’ente locale in quanto si concretizzava in esame successivo dei fatti di gestione; inoltre il loro intervento era limitato dalla legge ai soli dati del conto del tesoriere.

Nel contesto delle misure necessarie per procedere al risanamento dei bilanci di quegli enti locali che chiedevano l’esercizio con patologici disavanzi di amministrazione, il legislatore con il decreto legislativo 2 marzo 1989 n. 66 convertito con modificazioni della legge 24 aprile 1989 n. 144 ha introdotto nell’ordinamento giuridico l’istituto del dissesto finanziario: in questo contesto è stato previsto che negli enti dissestati il collegio dei revisori non sia più scelto in seno al consiglio comunale ma che i suoi componenti siano scelti fra soggetti professionalmente preparati; inoltre i compiti del collegio sono stati estesi anche al controllo della regolarità della intera gestione economico-finanziaria e di quella patrimoniale.

La successiva legge 8 giugno 1990 n. 142 sul nuovo ordinamento delle autonomie locali ha esteso a tutti gli enti locali questa nuova figura del revisore con il compito di vigilare sulla regolarità contabile e finanziaria dell’ente; a questo organo viene affidato anche il compito di redarre una relazione sul rendiconto dell’ente prevedendo in particolare di attestare la corrispondenza del rendiconto alle risultanze della gestione e di esprimere rilievi e proposte tendenti a conseguire una migliore efficienza, produttività ed economicità della

gestione. Queste funzioni, quasi lapidariamente enunciate dalla legge n. 142 in quanto legge di principi, sono state meglio delineate dalle due circolari ministeriali di applicazione della legge n. 142 e dal decreto ministeriale 4 ottobre 1991. Lo spettro delle competenze del nuovo organo di revisione, che nei comuni con meno di 5.000 abitanti è composto da una sola persona, che emerge da questo quadro normativo è di non poca rilevanza: queste competenze sono state riassemblate dell’art. 105 del decreto legislativo 25 febbraio 1995, n. 77 sul nuovo ordinamento finanziario e contabile degli enti locali, che era previsto dall’alt. 59 u.c. della legge n. 142.

L’aggiornamento all’ordinamento degli enti locali apportato dalla legge 15 maggio 1997 n. 127 ha implicato una rivisitazione del d.lgs. n. 77 che è stata effettuata dal decreto legislativo 15 settembre 1997 n. 342, il cui art. 17 in particolare prevede che i revisori, nell’esprimere il loro parere sul bilancio di previsione, debbono formulare anche un motivato giudizio di legittimità sui documenti contabili. Questa norma, anche se discutibile sotto il profilo del superamento da parte del Governo della delega legislativa ricevuta, si inserisce nell’evoluzione di cui è stato oggetto negli ultimi dieci anni il sistema di controllo dell’attività degli enti locali. In questo periodo infatti si è passati progressivamente da un sistema di controlli prevalentemente esterni su tutti gli atti ad un sistema di controlli prevalentemente interni, che è frutto del riconoscimento dell’autonomia dell’ente locale come una proposizione forte. Questo sistema dei controlli esterni su tutti gli atti degli enti locali sviliva le potenzialità autonomistiche che si manifestavano nell’ente locale ed evidenziava quali erano le carenze legislative di attuazione del principio costituzionale dell’autonomia di questi enti.

Questo nuovo compito attribuito ai revisori va riletto tenendo a mente l’impianto generale impostato dalla legge non va contrapposto all’eliminazione del parere di legittimità su tutte le proposte di deliberazione precedentemente espresso dai segretari comunali e provinciali. Sull’abolizione di questo parere si deve, evidenziare che il legislatore ha preso atto che un parere di legittimità espresso dal segretario dell’ente su ogni proposta di atto deliberativo aveva una connotazione meramente formale, specie negli enti di una certa dimensione: conseguentemente il legislatore ha ridisegnato le modalità di partecipazione del segretario al processo di formazione degli atti deliberativi (al segretario ora è affidata l’assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell’ente in ordine alla conformità dell’azione amministrativa all’ordinamento giuridico, con la precisazione che la conformità all’ordinamento giuridico è sinonimo di legittimità) e ha previsto un coinvolgimento dei revisori più ampio nel formulare il parere sul bilancio di previsione e sulle sue variazioni. Questo giudizio che i revisori devono esprimere, deve riguardare anche la coerenza e la congruità necessarie per appurare la coesione dei vari elementi, nonché la proporzionalità e l’attendibilità delle previsioni, cioè la correlazione delle analoghe situazioni rispetto l’esercizio precedente. Tuttavia l’attribuzione ai revisori della formulazione di un parere di legittimità sui documenti contabili aveva sollevato non poche perplessità; la presenza del nuovo organo di revisore nell’ente locale è teleologicamente indirizzata principalmente alla verifica della regolarità contabile della gestione ed in subordine alla liceità della stessa, tenendo a mente che la liceità è un concetto meno restrittivo rispetto la legittimità dei singoli atti. La legge 16 giugno 1998 n. 191 ha superato tutti gli equivoci che potevano sorgere al riguardo togliendo alla parola “giudizio” la specificazione “di legittimità” e aggiungendo alla specificazione “di attendibilità” l’aggettivazione “contabile”.

La legge n. 142 è stata una legge innovativa per gli enti locali che, dopo l’emanazione della Costituzione, vivevano in una sorta di autonomia vigilata. La legge n. 142 ha tardato ad essere approvata perché il suo iter legislativo era collegato con l’attuazione dell’ordinamento regionale, che per ragioni di opportunità politica, non è stato facilitato dal legislatore. Questa legge, nel rendere questa autonomia una proposizione forte, ha introdotto nella gestione dell’ente una serie di nuovi istituti già sperimentati nelle aziende private. La legge n. 142 pur essendo una legge di spessore aveva il difetto di essere una legge fatta per i grandi comuni: essa infatti, ove tratta della distinzione dei ruoli fra organi politici e organi burocratici, menziona fra questi ultimi solo i dirigenti, che rappresentano una figura lavorativa inesistente nei piccoli comuni, che costituiscono invece la maggioranza degli enti locali. Conseguentemente la separazione dei ruoli fra politico e dipendente ha incontrato non semplici difficoltà di applicazione negli enti privi di figure dirigenziali, fino all’emanazione della legge n. 127, che ha puntualizzato che in questi enti i titolari della gestione amministrativa sono i responsabili dei singoli servizi. In un altro passo della legge n. 142 vengono suggerite come la panacea per le difficoltà gestionali dei piccoli comuni le unioni e le fusioni fra gli stessi, senza considerare che i comuni sono gli enti esponenziali di una popolazione e di una cultura radicatesi nei singoli tenitori, fattori sociali questi che già non erano stati tenuti in considerazione dalla politica accentratrice del primo dopoguerra.

La legge n. 142 proponeva però anche altre forme di collaborazione fra gli enti locali, quali le convenzioni e gli accordi di programma, istituti che però erano nuovi e la cui efficacia di conseguenza doveva essere ancora testata. Ne è derivato che l’approccio alla nuova legge da parte degli enti minori è stato connotato da diffidenza, con la conseguenza che, inizialmente, i contenuti della legge venivano subiti e non condivisi. Le difficoltà pratiche di attuare la legge n. 142 erano complicate dalla circostanza che molti enti presentavano un debito culturale: per attuare i principi contenuti nella legge era necessaria una crescita culturale di tutti i loro operatori, altrimenti con l’impreparazione si rischiava di mortificare l’effetto della riforma appena approvata. Per superare queste difficoltà la legge n. 142 ha attribuito ai revisori anche compiti propositivi che, per un giusto espletamento dei doveri del mandatario, non potevano limitarsi fin dal loro primo insediamento ai contenuti della sola relazione al rendiconto in cui essi devono esprimere rilievi e proposte tendenti a conseguire una migliore efficienza, produttività ed economicità della gestione.

Il collegio dei revisori è stato novato dalla legge n. 142 rispetto l’organo di revisione previsto nel precedente ordinamento, in base al quale i revisori venivano nominati in seno al consiglio comunale, prescindendo dalla loro preparazione professionale, ed avevano il compito di visionare solo il conto che presentava a fine esercizio il tesoriere: si trattava di una funzione saltuaria e limitata alla verifica della regolarità delle movimentazioni di cassa, anche se permetteva di sindacare sulle modalità di effettuazione di tutti gli incassi e di tutti i pagamenti. In questo contesto legislativo i revisori però non potevano sindacare le decisioni dell’amministrazione sugli importi che venivano riportati nell’esercizio successivo quali residui e conseguentemente non potevano analizzare i risultati complessivi della gestione. Il legislatore del 1990 per lo svolgimento di queste funzioni ha previsto un organo composto da professionisti iscritti in appositi albi: l’appartenenza ad una determinata fascia culturale certifica l’idoneità astratta del revisore a ricoprire una funzione all’interno dell’ente locale. I primi revisori eletti in base alla legge n. 142 si sono trovati inseriti in un contesto politico-amministrativo non preparato alle novità insite in questa legge e, forti della loro professionalità, hanno ritenuto opportuno dar vita ad una serie di iniziative con lo scopo di contribuire attraverso proposte, studi, progetti, conferenze, seminali alla più ampia e tempestiva attuazione delle norme sancite dalla legge n. 142 e dalla legge 7 agosto 1990 n. 241, sui procedimenti amministrativi e sulla trasparenza della pubblica amministrazione, nonché dalle successive normative di attuazione di questi due epocali provvedimenti legislativi.

La presenza nell’ente locale del revisore così connotano va collegata alla previsione dell’articolo 58 della medesima legge che abolisce il controllo giurisdizionale della Corte dei Conti sui consuntivi degli enti locali, che era previsto dall’art. 226 del regolamento approvato con regio decreto 12 febbraio 1911 n. 297; nel complesso procedimento di approvazione del rendiconto previsto dalla legge n. 142 viene riservato a questa Corte lo svolgimento del giudizio di conto sulle contabilità presentate dagli agenti contabili degli enti locali. Il legislatore, per garantire che venisse effettuato comunque un controllo sull’attività degli enti locali, dopo questo intervento ablativo, anche al fine di dare una ragionevole certezza che gli eventuali illeciti compiuti nella gestione non vadano esenti da responsabilità, ha posto a carico dei revisori l’onere del referto al consiglio dell’ente su eventuali gravi irregolarità di gestione, con la contestuale denuncia ai competenti organi giurisdizionali ove si configurino ipotesi di responsabilità. Il dovere di denuncia da parte dei revisori istituzionalizza uno stretto collegamento tra controlli interni e giurisdizione di responsabilità: ciò anche in considerazione della possibilità che hanno ora i revisori di effettuare controlli in corso di esercizio, mentre con il precedente esame generalizzato del solo conto consuntivo da parte dei revisori, la loro attività cognitiva doveva necessariamente riferirsi a fatti di gestione risalenti nel tempo.

Un’altra novità della legge n. 142 è l’esplicitazione del principio della trasparenza della pubblica amministrazione, che era stato già espresso dall’articolo 2 della legge 29 marzo 1983 n. 93, che, come la legge n. 142, è stata dichiarata legge fondamentale del nostro ordinamento giuridico.

Nel contesto della legge n. 142 è stato codificato, come già anticipato, anche il principio della distinzione delle competenze fra organi politici, cui competono i poteri di indirizzo e controllo dell’attività amministrativa, e organi burocratici, ai quali compete la gestione amministrativa dell’ente. Il sistema della separazione dei ruoli fra organi politici e organi burocratici si è andato via via delineando lungo il percorso segnato dall’articolo 51 della legge n. 142/90, dall’articolo 3 del decreto legislativo n. 29/93 ed infine all’articolo 11 del decreto legislativo n. 77/95, che attraverso lo strumento del piano esecutivo di gestione attribuisce ai responsabili dei servizi la gestione delle risorse per il raggiungimento degli obiettivi fissati dagli organi politici. La separazione delle competenze per essere efficiente ed efficace deve essere frutto di una testata cultura di programmazione della gestione dell’ente, cultura che si concretizza nella predisposizione di una esaustiva e fattiva relazione previsionale e programmatica e di un bilancio di previsione, che siano frutto di un confronto fra politici e responsabili dei servizi. Questa separazione dei ruoli però nel corso della gestione deve avere diversi momenti di confronto, alcuni dei quali presenteranno un indice di integrazione molto forte.

In questo contesto, che vede scindere le responsabilità politiche da quelle gestionali, si inserisce la nuova figura del revisore che ha il compito di svolgere funzioni di vigilanza sulla regolarità contabile, finanziaria ed economica della gestione con particolare attenzione all’acquisizione delle entrate, all’effettuazione delle spese, all’attività contrattuale, all’amministrazione dei beni, alla completezza della documentazione, agli adempimenti fiscali ed alla tenuta della contabilità. Al revisore viene riconosciuta dall’art. 17 del d.lgs. n. 342 anche una funzione propositiva nei confronti del consiglio dell’ente per assicurare l’attendibilità delle impostazioni contabili: qualora l’organo consigliare non recepisca i suggerimenti dei revisori, deve adeguatamente motivare la mancata attuazione delle misure da essi proposte. L’ampiezza di queste funzioni attribuite ai revisori richiede un monitoraggio costante sull’attività dell’ente, monitoraggio che deve seguire nel corso dell’esercizio l’evolversi della gestione intervenendo, se necessario, con le dovute segnalazioni.

Per rendere possibili queste innovazioni nell’organizzazione dell’ente locale devono essere valorizzate o introdotte, se ancora non presenti, quelle forme di controllo che non si limitano al momento della verifica, ma che svolgono anche una funzione di supporto alle attività di programmazione ed a quelle di direzione. È bene puntualizzare che il controllo di gestione negli enti locali assume due diverse configurazioni. Una prima fattispecie di controllo di gestione deriva dalla connotazione finanziaria del bilancio di previsione degli enti pubblici: si tratta del controllo degli equilibri finanziari del bilancio, che è stato codificato nell’ordinamento giuridico dall’articolo 1 bis della legge n. 488/86, recepito e sviluppato dal decreto legislativo n. 77/95. Una diversa accezione del controllo di gestione viene richiamata dall’articolo 57, ultimo comma, della legge n. 142/90: in questa fattispecie il controllo di gestione viene aggettivato come “economico”; si tratta di un tipo di controllo che è derivato dalla cultura aziendale e su cui si era già soffermata, anche se superficialmente, la legislazione precedente. Questo controllo è rivolto alle modalità di raggiungimento degli obiettivi e alla verifica della qualità del risultato ed ha avuto una regolamentazione normativa a se stante con gli articoli 39, 40 e 41 del d.lgs. n. 77/95. Le difficoltà di applicazione di questo secondo tipo di controllo di gestione nelle aziende di erogazione discende dal fatto che nelle aziende private la principale pietra di paragone dei risultati è il profitto, mentre negli enti pubblici il risultato si misura il più delle volte non monetariamente ma nel soddisfacimento delle esigenze della collettività.

Il controllo di gestione comunque effettuato rappresenta una applicazione del principio del buon andamento della pubblica amministrazione, con l’avvertenza che lo stesso diviene una proposizione forte solo se viene condiviso da amministratori e funzionali: si rischia altrimenti di dar vita solo ad un procedimento dovuto ma non condiviso, per cui diviene un adempimento formale come era nel passato il controllo esterno di legittimità sugli atti. Il controllo di gestione deve essere una sfida contro la burocratizzazione dell’attività amministrativa ed una nuova modalità di confronto e collaborazione fra organi politici ed organi amministrativi. Il revisore, che svolge le sue analisi a campione sulla gestione dell’ente, può utilizzare anche i risultati del controllo di gestione ed essere coinvolto nella composizione dei nuclei di valutazione, senza che l’amministrazione debba ricorrere ad altre professionalità che possono essere forse di maggiore spessore culturale, ma che comunque rispetto al revisore son meno a conoscenza della realtà dell’ente e sono sicuramente più onerosi.

Osvaldo de Castro

Segretario generale del Comune di Cervignano del Friuli (UD)
In “La finanza locale” anno IXX n. 2 febbraio 1999 Maggioli editore Rimini

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